L’interessante evoluzione dell’Unione Sindacale di Base sulla vicenda ex Ilva. Dal presentarsi come alternativa ai Confederali a finire col firmare gli stessi accordi capestro. Dall’inventarsi scioperi inesistenti fino alla richiesta di un nuovo padrone di Stato.
Il
29 novembre il sindacato USB, in concomitanza del corteo
ambientalista Friday For Future, ha indetto uno sciopero all’Ilva
di Taranto con manifestazione nazionale cui hanno aderito delegazioni
operaie di altre città, rappresentanze di partiti di sinistra e
studenti. Alla testa del corteo i soliti sindacalisti di professione
e politicanti a sciorinare slogan ritriti sulla “difesa
della salute a Taranto”
e l’urgenza “di
un piano di riconversione per l’Ilva”.
Gli operai dell’acciaieria tarantina erano assenti, lo
sciopero all’Ilva si è tenuto senza gli operai dell’Ilva,
malgrado i toni trionfalistici con cui i dirigenti del sindacato
hanno poi parlato di una “partecipazione
operaia massiccia e significativa”.
Ciò potrebbe portare a pensare che gli operai Ilva non avvertano la
necessità di una mobilitazione, che restino indolenti mentre la casa
brucia, o invece, più realisticamente, che siano ormai disillusi e
non prestino più ascolto alle sirene dei sindacati, anche quelli
cosiddetti alternativi come USB, che non siano più disposti a
mobilitarsi a comando, a maggior ragione se il comando arriva da chi
non ha più alcuna credibilità ai loro occhi.
Appena un anno
fa USB e i sindacati confederali sottoscrivevano l’accordo con cui
Mittal prendeva in fitto lo stabilimento e si impegnava ad acquisirlo
dopo 18 mesi, con la tutela di uno «scudo penale», la garanzia
della cassa integrazione e un lascia passare sugli esuberi. Oggi le
contraddizioni a Taranto stanno esplodendo, il padrone va dritto per
la sua strada, i bonzi sindacali che sedevano ai tavoli di trattativa
e che in ragione della sopravvivenza delle loro parrocchie, grandi o
piccole che siano, dovevano far ingoiare agli operai qualsiasi
accordo, decidono che è tempo di mobilitarsi. Di fronte al
fallimento delle loro ipocrite propagande accusano gli operai di
essere degli incoscienti, come è avvenuto davanti ai cancelli della
ArcelorMittal il 29 novembre, quando i dirigenti USB hanno tentato
invano di
forzare gli ingressi.
Usano gli operai come massa di manovra per i loro interessi di
bottega: ora li vogliono accondiscendenti e comprensivi, pronti ad
applaudire ai loro accordi, ora combattivi e intransigenti, quando
c’è da far pressione per raggiungere…altri accordi.
Del
resto gli operai hanno imparato sulla loro pelle che cosa significa
stare al traino della piccola borghesia che tiene le redini dei
sindacati: quali vantaggi ne ricaverebbero da chi si fa promotore di
“una
lotta per la nazionalizzazione e un piano di riconversione”?
Gli statalisti incalliti della Rete dei Comunisti e di USB spargono
ancora a piene mani l’illusione che con una gestione pubblica dei
siti produttivi gli operai vedrebbero tutelati i loro interessi.
Chiedono agli operai di cambiare padrone. Dal singolo capitalista al
capitalista collettivo, lo Stato. La nazionalizzazione è l’ultima
spiaggia dei riformisti. Quando il baraccone capitalistico
scricchiola, e in tempi di congiuntura economica questo è tanto più
evidente, si appellano allo Stato affinché il profitto non cessi e
lo sfruttamento operaio pure. Questi sindacalisti da operetta con
posizioni tipicamente interclassiste, affasciando interessi operai e
quelli delle mezze classi, organizzano manifestazioni che rivendicano
la chiusura dello stabilimento e la sua riconversione, come se la
lugubre catena dello sfruttamento che si abbatte in primis sugli
operai del siderurgico e di conseguenza sulla città, l’obsolescenza
impiantistica, il tasso di inquinamento, dipendessero dalla
produzione dell’acciaio in sé, non dal modo in cui i padroni
estraggono profitti dall’acciaio lavorato dagli operai, cioè da un
certo modo di produzione.
Anche nella lotta di Taranto per gli
operai sarà fondamentale distinguere i loro precisi interessi da
quelli delle altre classi. Prendere le distanze e lottare apertamente
contro le direzioni sindacali asservite al padrone e quelle che
gettano solo fumo negli occhi è un passaggio indispensabile, con la
consapevolezza che nessuna proposta oggi in campo nasce
nell’interesse operaio e che per una lotta generalizzata contro i
padroni e la loro schiera di funzionari politici e sindacali è
necessario muoversi sul terreno politico nell’ottica di una propria
indipendenza, di un proprio partito. Il partito operaio.
A.B.
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