La vicenda Almaviva è emblematica. E’ vero che non si tratta direttamente di operai ma è anche vero che il tanto rispettato e finanziato imprenditore tratta i suoi impiegati peggio di schiavi usa e getta.
Almaviva è un gruppo multinazionale che lavora nell’ambito dei
call center. In Italia rappresenta una delle aziende più importanti,
la quinta o la sesta per fatturato e numero di dipendenti. In Italia
fattura quasi un miliardo di euro l’anno. Aveva decine di migliaia
di dipendenti quasi tutti inquadrati con contratti part time, a meno
di settecento euro al mese. Costantemente sostenuta dallo stato fin
dal 2000, sia con finanziamenti diretti, sia con gli ammortizzatori
sociali, oltre a usufruire di commesse statali consistenti.
La
crescente automazione, la tendenza costante ad abbassare i costi, il
trasferimento di attività in altri paesi dove era possibile
realizzare maggiori profitti, portano i centri italiani verso la
crisi.
Con alti e bassi arriviamo al 2016 quando l’azienda
chiede, per continuare l’attività, un taglio degli stipendi del
17%, il blocco degli scatti di anzianità, il congelamento del tfr
per tre anni per le sedi di Roma e Napoli.
Dopo le solite vie
crucis tra tavoli ministeriali, passeggiate metropolitane e
“interventi del governo” (allora era ministro del lavoro Calenda
e titolare della trattativa la vice ministra Bellanova), i lavoratori
Almaviva, sotto il ricatto di governo e azienda, si spaccano, quelli
di Roma non accettano l’accordo mentre quelli di Napoli sì. A Roma
in un primo momento i lavoratori seguono la linea della rsu,
rifiutando l’accordo; successivamente, di fronte alla chiusura,
accettano il solito referendum per l’eutanasia proposto dalla CGIL
e vince il sì anche se il 44% conferma il rifiuto del piano
aziendale. Troppo tardi però perché l’azienda conferma la
chiusura. La conseguenza è che 1.666 lavoratori a Roma sono stati
licenziati e quelli di Napoli, con stipendi ulteriormente ridotti e
condizioni di lavoro peggiorate, sono sopravvissuti fino ad oggi,
anche se ridotti di numero.
Dopo tre anni però, altri guai.
La gara d’appalto per la gestione del contact center INPS
sfugge di mano alla RTI Transcom/Covisian/Almaviva e viene
aggiudicata alla RTI Comdata-Network Contacts, i lavoratori di Napoli
sono di nuovo nel pantano. La nuova società vuole prendersene solo
400 e lasciarne fuori 150. Con il coinvolgimento dell’INPS si trova
un accordo, e per ora nessuno viene licenziato. L’assunzione in
Comdata dei 150 lavoratori avverrà formalmente a marzo e tutti i 550
lavoratori dovranno andare a lavorare a Marcianise, a trenta
chilometri dalla vecchia sede. Per i 200 che rimangono a Napoli c’è
un grande punto interrogativo.
Almaviva in Sicilia intanto sta
per licenziare altri 1600 lavoratori. I servizi call center sono
ormai affidati ad operatori rumeni che già hanno sostituito quelli
romani tre anni prima. Altri tira e molla con governo sindacati e
committenti per trovare l’ennesimo accordo al ribasso sempre sulle
spalle dei lavoratori.
E’ una corsa verso la miseria.
Lo
sviluppo tecnologico che potrebbe migliorare le condizioni della
popolazione, invece, al servizio del profitto, per arricchire un
piccolo gruppo di parassiti, i padroni, non fa altro che creare
disoccupazione.
Con la globalizzazione e il cosiddetto
liberismo, i padroni inseguono le occasioni per guadagnare di più,
cercando e trovando sistematicamente condizioni sociali più
favorevoli ai loro affari .
Lo Stato, organizzazione al servizio
dei padroni, utilizza le sue risorse economiche di capitalista
collettivo per sostenere regolarmente i padroni quando ne hanno
bisogno e mettere una pezza, gli ammortizzatori sociali, per evitare
le rivolte dei lavoratori coinvolti.
I lavoratori sono divisi e
disorganizzati. Non hanno mai un ruolo da protagonisti. Vanno dietro
ai sindacati che sistematicamente se li vendono e chiedono
l’intervento dei vari governi per tentare di salvarsi. Arrivano ad
essere uno contro l’altro come i lavoratori di Napoli contro quelli
di Roma. Solo una minoranza esce fuori dal coro come quella
lavoratrice di Napoli che contesta apertamente in assemblea quel
chiacchierone inconcludente (per gli operai) di Landini.
I
lavoratori di Almaviva erano più di 20.000 all’inizio, con una
certa cultura visto che erano tutti diplomati e laureati. Potevano
organizzarsi e rappresentare una massa d’urto potente, potevano
mettere a frutto i loro studi per ragionare e trovare un modo per
resistere collettivamente alle strategie del padrone, ma tutto questo
non è avvenuto. Le classiche illusioni perbeniste hanno spinto la
maggior parte di loro al seguito di politici e sindacati, che oggi
addirittura pubblicamente ringraziano. E, ridotti di numero, con meno
soldi e in condizioni di lavoro peggiori, festeggiano la loro
“vittoria”.
Ma dalla loro brutta esperienza ne traggano
almeno una lezione, che vale per tutti i lavoratori ed anche per gli
operai: se andiamo dietro alle politiche padronali e dei loro servi
della politica e del sindacato andremo sempre di più in miseria.
E’
arrivato il momento di rimettere in discussione i fondamenti
economici e sociali di questa società e se gli operai, che
rappresentano la contraddizione più evidente fra lavoro a salario e
capitale, fanno i primi passi in questa direzione possono
rappresentare un esempio per tutti.
F.R.
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