Articolo 18, la minestra riscaldata del governo
22 marzo 2012
Gabriele Battaglia
Ore 17.00 di giovedi 22 marzo. Per ora nessuna firma sull[k]articolo 18. Il verbale che il premier Monti voleva controfirmato dalle parti sociali per il momento resta nel cassetto.
Sembra che il presidente del Consiglio avesse fretta, le malelingue dicono a causa dell[k]imminente viaggio in Cina. Ma il pressing del Pd [k] a rischio spaccatura interna e a sua volta incalzato dalla Cgil, a cui si e’ aggiunta la Cisl [k] avrebbe suggerito piu’ miti consigli. Il rischio sarebbe quello di presentarsi in Parlamento con un testo e uscirne con un colabrodo a furia di emendamenti.
Sul piatto, dicono fonti sindacali, ci sono due punti.
Primo. Il reintegro per per i licenziamenti economici e disciplinari. Nell[k]attuale articolo 18, tale distinzione non esiste: si parla solo di licenziamenti con (o senza) [k]giusta causa o giustificato motivo[k]. Il nuovo disegno-legge distingue invece tra i motivi economici (definiti per [k]motivi oggettivi[k]), per cui non si prevede mai la possibilita’ di reintegro, ma una procedura di conciliazione ed eventualmente un indennizzo economico; e i motivi disciplinari ([k]motivi soggettivi[k]), che daranno al giudice il compito di valutare la situazione e applicare il reintegro o l[k]indennizzo.
Il fronte sindacale vuole che anche nel caso dei licenziamenti economici sia prevista la possibilita’ di reintegro.
Valgano su questo punto le parole pronunciate oggi dal responsabile Economia del Pd, Stefano Fassina, secondo cui il punto fondamentale [k]riguarda la possibilita’ (non l[k]obbligatorieta’) del giudice di disporre il reintegro del lavoratore licenziato per motivi economici, se viene accertato che questi non sussistono. Non si capisce infatti per quale ragione il reintegro non sia stato previsto nemmeno teoricamente[k].
Secondo. L[k]estensione della nullita’ degli atti discriminanti alle imprese con meno di 15 dipendenti. Qui, secondo i sindacati, il governo bara o quanto meno ignora la materia. L[k]esecutivo mette infatti sul piatto questa presunta [k]estensione[k] come una prova della sua volonta’ di rendere tutti i lavoratori uguali, senza differenze tra le imprese con piu’ o meno di 15 dipendenti.
Peccato pero’ che al Titolo II (quello sui diritti sindacali), Articolo 15 dello Statuto dei Lavoratori, sia gia’ previsto che [k]e’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: subordinare l[k]occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attivita’ sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresi ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di eta’, o basata sull[k]orientamento sessuale o sulle convinzioni personali[k].
Insomma, anche nelle imprese con meno di 15 dipendenti, almeno a norma di legge, non si puo’ essere discriminati. Un principio civile e umano, prima ancora che del lavoro.
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