ARMI

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Armi di distruzione nel PIL, le novita’ dal 2014
http://amisnet.org/agenzia/2012/10/19/armi-di-distruzione-nel-pil-le-novita-dal-2014/

Dal 2014 la fabbricazione di armi di distruzione verra’ conteggiata a pieno nel computo del PIL dei singoli paesi. [k]Apparentemente si tratta di un cavillo tecnico[k], commenta Roberta Carlini, giornalista e collaboratrice di Sbilanciamoci, [k]ma la modifica apportera’ dei cambiamenti sostanziali, dato che fino ad oggi esisteva una differenza tra le spese militari che potevano avere anche un[k]utilizzo civile (caserme, strutture di vario genere) e quelle destinate invece a materiali che si distruggono nell[k]uso. Fino ad ora le spese di questo secondo ordine venivano calcolate nel PIL per una percentuale che non superava il 60%, dal 2014 lo saranno nella loro interezza. [k]

La modifica viene dalle Nazioni Unite e i diversi istituti statistici (Eurostat ed Istat per quanto riguarda Europa ed Italia) sono gia’ al lavoro per darle applicazione. Gli effetti che e’ possibile prevedere parlano per un verso di un incredibile potere consegnato alle lobby di produttori, potere che potra’ ragionevolmente orientare le politiche industriali e belliche. D[k]altro canto bisogna capire cosa questo determinera’ sui PIL dei diversi paesi e sul rapporto tra deficit e PIL. [k]In un primo momento[k], continua Roberta Carlini, [k]questo potrebbe alleviare i conti di molti paesi, ma in prospettiva potra’ avere effetti nefasti. Questa vicenda va inquadrata nel dibattito a livello europeo sulle spese fatte per investimenti e sulla possibilita’ di sottrarle al computo del deficit. Se la produzione di armi di distruzione verra’ iscritta a tutti gli effetti nelle spese per investimenti, equiparandola alla costruzione di ospedali e infrastrutture, saranno avvantaggiati i paesi che producono armi.[k]

La produzione di armi gode di un generale occhio di riguardo anche in epoca di spending review e di tagli alla spesa pubblica. Ad esempio nessuno ha chiesto alla Grecia di ridurre la propria spesa militare, piuttosto ingente. L[k]orizzonte che piu’ concretamente si profila e’ quello di un ulteriore scollamento tra gli indicatori economici e il reale tasso di benessere e sviluppo di un paese.

Sulle spese militari, il Ministro da’ i numeri
Gianni Alioti – Fonte: Unimondo – 27 febbraio 2012
Nel documento sui cento giorni del Governo Monti si sostiene che la spesa per la Difesa in Italia, in rapporto al PIL, e’ la piu’ bassa d[k]Europa. Da un Governo fatto di tecnici e professori ci si aspetterebbe, almeno, che sappiano [k]far di conto[k]. Invece in questo caso, come sul costo dei caccia-bombardieri F35 e sulle ricadute occupazionali del programma, stanno [k]dan do i numeri[k].
Con un[k]operazione contabile che ricorda molto la [k]finanza creativa[k] con la quale si e’ portato il nostro debito pubblico al 120 per cento del PIL, nel documento si afferma – con [k]bocconiana[k] altezzosita’ – che le spese militari in Italia sarebbero solo lo 0,90 per cento del PIL contro una media Ue del 1,61 per cento.
Quale sia la fonte e il modello comparativo adottato non e’ dato saperlo. Possiamo, pero’, intuirlo e dare una [k]picconata[k] alla presunta serieta’ di questo Governo, almeno in faccende militari e di armamenti.
Questo numero magico (lo 0,9 per cento) non e’ nuovo. Lo stesso Ammiraglio Di Paola, passato in tutta fretta dal comando della NATO al ruolo di Ministro della Difesa lo aveva usato in precedenti occasioni, per cercare che la scure del rigore non si abbattesse pesantemente sulle [k]alte uniformi[k] e sugli approvvigionamenti militari.
Peccato che sia proprio la NATO (e non Anonymous) a smentire quel numero.
La NATO nel suo report, [k]Financial and Economic Data Relating to NATO Defence[k] pubblicato il 10 marzo 2011 e accessibile a chiunque, confronta la spesa militare dei paesi che partecipano all[k]Alleanza Atlantica dal 1990 al 2010. Ovviamente lo fa riclassificando i criteri contabili e gestionali di ciascun paese in modo che le voci di spesa incluse nell[k]analisi comparativa siano le stesse. Non c[k]e’ bisogno di avere un dottorato in Economia alla Bocconi per sapere che non si possono comparare [k]mele con pere[k].
La NATO per dare maggiore attendibilita’ al confronto tra i paesi, oltre a calcolare il peso delle spese militari sul PIL su base annuale, fa una comparazione dei valori medi in un arco temporale di cinque anni.
Che cosa e’ evidente dai dati forniti dalla NATO?
1. La spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti) non e’ la piu’ bassa dell[k]Unione Europea, come scritto nel documento ufficiale della Presidenza del Consiglio, [k]Governo Monti: attivita’ dei primi cento giorni[k]. Non solo e’ maggiore del [k]magico[k] 0,9%, ma e’ superiore al dato di Germania e Spagna (per restare ai paesi territorialmente comparabili al nostro). E[k] vero che Francia e Regno Unito spendono di piu’ dell[k]Italia, ma non possiamo dimenticare che questi paesi, oltre ad essere membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell[k]ONU, hanno propri arsenali nucleari i cui costi di semplice mantenimento e messa in sicurezza sono enormemente alti. Rimane la Grecia, il paese piu’ spendaccione – in campo militare – dell[k]intera UE in rapporto al proprio PIL. Non mi sembra, pero’, un caso virtuoso da prendere ad esempio per riformare il sistema di Difesa in Italia e ridurre il debito pubblico.
2. Anche i dati per l[k]anno 2010 (i piu’ recenti in ambito NATO) confermano che la spesa militare in Italia in rapporto al PIL (a prezzi correnti), pur escludendo la quota destinata all[k]Arma dei Carabinieri, non e’ la piu’ bassa dell[k]UE. L[k]Italia e’ al 1,4%, come la Germania e piu’ della Spagna (1,1%), mentre la media NATO dei paesi europei e’ al 1,7%, di poco superiore a quella italiana.
3. Infine, se compariamo non i valori statici, ma il trend – cioe’ la variazione nel te mpo – l[k]Italia e’ uno dei paesi europei che meno hanno ridotto il peso delle spese militari in rapporto al PIL nell[k]arco di venti anni: in Francia questo rapporto si e’ ridotto del 30%, in Germania del 38%, in Grecia del 28%, nel Regno Unito del 32%, in Spagna del 25%, mentre in Italia del 20%.
Se permangono dei dubbi sulle fonti, consiglio di verificare non il sito della Rete Italiana Disarmo, ma quello della Central Intelligence Agency (si, proprio la CIA). Nella sua pubblicazione [k]The World Factbook[k], c[k]e’ l[k]elenco della spesa militare di ciascun paese (non solo NATO) in rapporto al proprio PIL. L[k]Italia – secondo la CIA – spende l[k]1,8% del proprio PIL.
Il dato curioso e’ che, mentre i valori per molti paesi sono aggiornati al 2009, quello dell[k]Italia e’ fermo al 2006. Non certo perche’ la CIA non ha accesso alle tabelle NATO. Piu’ semplicemente perche’ non ha ritenuto corretto che dal 2007 la NATO non abbia piu’ considerato le spese per l[k]Arma dei Carabinieri. Scelta alquanto discutibile fintanto che quest[k]ultima dipendera’ dal Ministero della Difesa e sara’ impiegata in scenari di guerra, come i contingenti di Esercito, Marina e Aeronautica.
Dello stesso parere e’ il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) – il prestigioso istituto svedese indipendente – che nel monitorare le spese militari nel mondo, secondo una metodologia corretta, che stabilisce di includere ed escludere le stesse cose nei dati di ciascun paese, certifica che l[k]Italia spende in media nel periodo 2005-2009 l[k]1,8% del PIL. E’ solo lo 0,2% in piu’ dei dati NATO ma un valore doppio rispetto a quello dichiarato dal Governo italiano.
Com[k]e’ possibile un divario cosi ampio? La ragione e’ semplice. Lo 0,9% e’ il risultato di una manipolazione contabile che sottrae dal calcolo delle spese militari, le voci del bilancio del Ministero della Difesa destinate alle pensioni e accantonamenti obbligatori, alle funzioni esterne (es. l[k]impiego dei militari in interventi di protezione civile) e all[k]Arma dei Carabinieri (in totale piu’ di un terzo del budget). Nello stesso tempo non computa ne’ il fondo per le missioni internazionali (1,640 miliardi di euro nel 2011), ascritte in bilancio al Ministero dell[k]Economia e Finanze, ne’ i fondi ascritti al Ministero dello Sviluppo Economico per finanziare programmi di nuovi sistemi d[k]arma (2,248 miliardi di euro nel 2011).
Lo 0,9% corrisponde, quindi, solo alle spese di personale, esercizio e investimento a bilancio del Ministero della Difesa, mentre le spese – pur espressamente militari – sostenute da altri dicasteri non sono calcolate.
Non si tratta, qui, di discutere sulla necessita’ di una riclassificazione della spesa militare per arrivare ad una definizione standard comunemente accettata a livello internazionale. Cio’ che non si puo’ accettare e’ l[k]operazione strumentale con cui il Governo italiano, mentre arbitrariamente esclude dal calcolo delle spese militari la voce pensioni e non include i fondi delle missioni internazionali, lo fa solo per l[k]Italia e non per gli altri paesi, finendo per comparare [k]mele con pere[k].
Gianni Alioti. Ufficio Internazionale Fim-Cisl
Vola il prezzo degli F-35
Eleonora Martini, il manifesto 17 ottobre 2012

Decollano verticalmente i prezzi dei cacciabombardieri che l’Italia ha programmato di acquistare. Per pagare, si risparmia sulla scuola pubblica. Il segretario generale del ministero ammette: [k]Ci costeranno il doppio[k]

Debertolis rettifica i dati ufficiali del governo presentati alla Camera nel febbraio scorso La notizia ora e’ ufficiale: i 90 cacciabombardieri Lockheed Martin F-35 che l’Italia ha deciso di comperare costeranno piu’ del doppio di quanto dichiarato dal ministero della Difesa in un’audizione ufficiale alla Camera nello scorso febbraio. Lo ha ammesso con nonchalance lo stesso segretario generale del ministero della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti, il generale Claudio Debertolis, raccontando in un’intervista pubblicata dal magazine Analisi Difesa i dettagli del nuovo programma italiano di acquisto del Joint Strike Fighter, dopo il taglio di 41 unita’ deciso a febbraio dal governo Monti.

Debertolis chiarisce che il prezzo di 80 milioni di dollari per ciascuno dei primi tre F-35 di tipologia A, quelli a decollo convenzionale (previste 60 unita’), si riferiva [k]a una pianificazione ormai superata dalle vicende del programma e verteva sul solo aereo “nudo”. Aggiornando i prezzi e aggiungendo tutte le altre voci di spesa – riferisce Debertolis nell’intervista – il costo di questi primi Jsf italiani in realta’ sara’ piu’ del doppio[k]. Non solo: Debertolis ha anche ammesso che [k]l’impianto Faco sulla base aerea novarese (Cameri, ndr) partira’ a regime ridotto con inevitabili aggravi di costo cui si aggiunge per il governo italiano, che li ha spesi, l’onere di recuperare i circa 800 milioni di euro investiti per realizzare la struttura[k]. Chi ci guadagna, invece, rivela ancora il generale, e’ Finmeccanica che, insieme alle altre aziende che partecipano al programma, ha una prospettiva di [k]ritorno industriale complessivo entro il 2026 di circa 13 miliardi di dollari, pari al 77% del nostro impegno finanziario globale nel programma[k].

[k]Le bugie volano basse[k], e’ il commento della Rete italiana per il Disarmo che da’ grande risalto alla notizia e rivendica giustamente di sostenere [k]da sempre una forte e sospetta sottostima dei costi dichiarati dal nostro governo per l’acquisto di questi aerei[k]. Per la campagna [k]Taglia le ali alle armi[k] contro l’acquisto degli F-35, la Rete per il Disarmo aveva raccolto le firme di 77 mila cittadini, 660 associazioni e il sostegno di oltre 50 enti locali, tra regioni, province e comuni. Eppure il ministero della Difesa, e l’Aereonautica in particolare, avevano sempre [k]cercato di gettare acqua sul fuoco delle polemiche e delle richieste di chiarimento provenienti in particolare dalla nostra Campagna[k], come ricorda Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo.

[k]In 11 anni – afferma ancora Debertolis nell’intervista rilasciata ad Analisi Difesa – il costo del programma Jsf e’ aumentato a una media giornaliera di 40 milioni di dollari[k]. L’Italia, spiega il generale di Squadra aerea, comincera’ ad acquistare i 30 esemplari di F-35B, i cacciabombardieri a decollo corto e atterraggio verticale, [k]il cui contratto d’acquisto e’ previsto nel 2015[k] – e per il quale, e’ il caso ora di ribadirlo, non esistono penali in caso di rescissione del contratto – [k]quando, secondo le previsioni del bilancio della Difesa 2013 dalla Casa Bianca, il costo medio dell’aereo “nudo” sara’ di 137,1 milioni di dollari (106,7 milioni di euro, ndr), per scendere poi a 125,1 nel 2016 e a 118.8 nel 2017[k]. Mentre per gli F-35A, i cui primi tre esemplari usciranno dalla catena di montaggio di Cameri nei primi mesi del 2015, [k]per la sola configurazione standard (quindi con tutta una serie di elementi ancora da aggiungere) – puntualizza la Rete per il Disarmo – si parla di un costo tra i 100 e i 107 milioni di euro, cioe’ oltre il 25% in piu’ di quanto dichiarato a febbraio 2012 dagli stessi esponenti della Difesa[k].

Purtroppo, e’ un vecchio vizio italiano che ha contagiato anche il governo dei super-tecnici votati al rigore (degli altri), quello di veder crescere costantemente i costi dichiarati ufficialmente al Parlamento italiano per giustificare la decisione: [k]e’ gia’ avvenuto nel passato per altri aerei, come a suo tempo il Tornado e poi l’Eurofighter[k], ricorda Maurizio Simoncelli dell’Archivio Disarmo che chiede ora al governo di riferire con urgenza al Parlamento e di [k]mostrare senso di responsabilita’ almeno nei confronti dei cittadini italiani costretti a forti sacrifici, terminando questa serie di dati parziali e rivendendo la propria decisione[k]. Anche perche’, come spiega sempre il segretario della Difesa Debertolis, [k]il Pentagono e’ preoccupato fra l’altro per le difficolta’ di sviluppo del software dell’aereo, la non corretta pianificazione dei collaudi, la vulnerabilita’ ai cyberattack del sistema logistico integrato, e da ultimo, dopo la distruzione in Afghanistan di 8 Harrier schierati su una base avanzata da parte di una pattuglia appiedata di Talebani, per le prospettive operative della versione Stovl (F-35B, ndr)[k].

Insomma, [k]aumenta proprio tutto, pure gli F-35[k], e’ la reazione ironica di Nichi Vendola che su twitter si chiede: [k]Quante altre scuole occorrera’ chiudere? Di quanti docenti dovra’ fare a meno l’istruzione pubblica e l’universita’?[k]. Dello stesso tono anche il presidente vicario dei deputati dell’Idv Fabio Evangelisti, che definisce [k]inutile e dannoso[k] il programma d’acquisto [k]che ci costa circa 15 miliardi di euro[k]. Mentre il Consiglio regionale della Toscana ha approvato all’unanimita’ una risoluzione per chiedere al governo di rivalutare il programma, [k]anche in considerazione di quanto queste risorse potrebbero essere utili per la difesa dello stato sociale, dei cittadini piu’ deboli, per la ricerca, l’istruzione, l’innovazione ecologica[k].

Tornano pero’ alla mente le parole del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola quando, nel dicembre scorso, ai giornalisti che gli chiedevano se non fosse il caso di fare cassa tagliando le spese militari rispondeva: [k]Non credo proprio[k]. E probabilmente non ha cambiato idea.

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