Con l’ex governo di Lula uno degli stati sudamericani più floridi in termini di economia aveva avviato una serie di riforme inerenti allo stato sociale. Il riformista Lula guardava con un occhio all’economia globale, ben conscio dei ritmi di crescita del Paese, dall’altro ammiccava alle politiche bolivariane e neo-socialiste degli altri stati del subcontinente, con il gigante petrolifero del Venezuela di Chavèz in primis. L’erede del “partido de trabajadores” Dilma Roussef sembra invece incantata dagli investimenti esteri per lo “sviluppo” del Paese e dalla sottomissione agli ingordi di Europa e nordamerica.
Qualcuno viene a raccontare che le lotte brasiliane siano dovute all “aumento delle tariffe dei mezzi pubblici”. Questa è una scusa, tanto come in Turchia la rivolta è scoppiata per una manciata di alberi da abbattere per un nuovo centro commerciale.
La dilagante corruzione pubblica e privata ed il forte rallentamento nella trasformazione dello stato sociale sono da addebitare all’ambigua succeditrice e leader del PT Dilma Roussef, che pare anzi navigare il gigante brasiliano lontano dalle rivoluzioni bolivariane di Venezuela e Bolivia. Telecamere e taccuini così impegnati e concentrati sui nuovi stadi futuristici allestiti per i prossimi mondiali di calcio e per la passerella del mondialino di quest’anno, non hanno nemmeno sfiorato le pur adiacenti favelas, zone in cui la repressione della PM (Polizia Militare) si fa sempre più cruenta. Si è arrivati al punto della carcerazione arbitraria e “preventiva”, proprio come nei floridi Stati Uniti di George W.Bush a seguito dell’11 settembre 2001.
Si è arrestato ogni progetto di inclusione sociale nella discussione di nuovi progetti: se Lula aveva allentato la morsa sulla distruzione ed il calpestamento dei popoli indigeni e delle loro terre, con Roussef si è tornati a livelli di violenza e sottomissione paragonabili in alcuni casi a quelli della dittatura dei gorilàs di fine anni ’60. Le terre oggetto di discussione diventano oggi aree da liberare per fare posto alla macro-crescita selvaggia tipica del più bieco capitalismo in forte ascesa.
Le ripercussioni di tale atteggiamento vibrano all’interno della cosiddetta società civile, creando nuove ondate sempre più frequenti ed intense di razzismo autoctono, pericoloso segnale di una potenziale guerra civile.
L’ondivaga impronta politica del governo Roussef è inoltre ben rappresentata dalla scelta sull’affidamento della Commissione sui Diritti Umani, lasciata in mano alle forze politiche più conservatrici in un clima da larghe intese che ben rende l’idea della collaborazione tra le varie fazioni della borghesia nello spartirsi il ricco bottino che il detonante Brasile sta creando. La nomina del pastore evangelicoMarco Feliciano, del Partido Social Cristiano, ha creato un’ondata di polemiche per le radicali posizioni omofobe assunte dal deputato del PSC, ideatore tra l’altro di una proposta di legge già sintetizzata in “cura gay“.
Roussef perde pezzi non solo tra gli strati popolari convinti di una progressiva trasformazione riformista, ma anche nella piccola e media borghesia dei produttori agricoli e degli allevatori: il boom economico del Paese richiede forti trasformazioni sia nella coltivazione che nella zootecnia, così si assiste all’impennata della agricoltura industriale, principalmente per la produzione di soia nell’ottica di bio-carburante, e del fenomeno degli allevamenti intensivi e meccanizzati di cui gli Stati Uniti sono maestri e che annullano ogni principio di sostenibilità come anche di tutela delle bestie da forme di crudeltà e maltrattamento.
Non da ultimo, va riportato il dato in costante ascesa delle spese militari. Inserite come punto fermo nell’agenda di governo già con la presidenza Lula ed il suo ministro della difesa Nelson Jobim; nel 2008 il consuntivo faceva registrare un aumento del 50%, arrivando all’equivalente di 3 miliardi di euro, esclusi stipendi del personale dell’esercito. La progressiva indipendenza economica ha portato però a far pendere la bilancia degli investimenti maggiormente su un piano di industrializzazione bellica che sull’acquisto e l’importazione di armi.
Il Brasile, secondo le stime ufficiali per il 2010, è il nono tra i primi 15 Paesi del mondo per spesa militare con 34 miliardi di dollari, appena dopo l’ottava posizione dell’Italia. Stando a dati più recenti, l’esborso è in continua ascesa di anno in anno, registrando costantemente aumenti a doppia cifra (nel 2012, +34% rispetto all’anno precedente). Oltre all’acquisto ed alla produzione di nuovi mezzi aerei, il Paese si sta concentrando sulla costruzione di nuove basi e sull’ovvio potenziamento della flotta marittima, data la particolare posizione geografica. Inoltre, sembrano ormai stabili gli avamposti di truppe armate schierate lungo i territori dell’Amazzonia.
Il governo borghese di Roussef, anche se lo volesse, fa sempre più fatica a nascondere il ruolo di primissimo piano che il Brasile sta via via acquisendo da un decennio a questa parte. Una condizione che smaschera del tutto l’ipocrita figura del riformismo e progressismo e che si arma delle ben più familiari politiche di repressione e violenza di stato. La storia ci insegna come la classe dominante abbia mostrato i denti più grossi nelle fasi di acuto sviluppo del capitalismo e di conseguenza delle borghesie nazionali.
Nella Germania degli anni ’20 e ’30 non è andata tanto diversamente.
A cura di M.L.
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