Gli operai dell’Ilva per decenni mentre venivano sfruttati nelle fabbriche siderurgiche di Taranto respiravano sostanze tossiche nocive e morivano per tumori dopo atroci sofferenze.
La popolazione che abita nei quartieri circostanti alle fabbriche siderurgiche dell’Ilva di Taranto muore ancora oggi per tumori correlati ai veleni che fuoriescono dai camini degli altiforni delle acciaierie e inquinando l’aria e i terreni limitrofi.
Ma gli assassini Riva che sono i responsabili delle morti degli operai rimangono ancora impuniti come i loro servi complici che non hanno tutelato la salute degli operai.
Operai dell’Ilva, Vendola e gli altri politici delinquenti e corrotti facevano parte della banda che favoriva la famiglia Riva siedono in parlamento, mostrano la loro bella faccia e parlano di riforme di lavoro.
Operai dell’Ilva, i politici e le istituzioni pugliesi per anni hanno fatto gli interessi per i padroni Riva, cosa aspettiamo a costruire il Partito Operaio per tutelare gli interessi di noi operai ?
Un operaio
di MIMMO MAZZA
Il processo chiesto dalla Procura di Taranto per stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, di chi sono state, sempre che ce ne siano state, le responsabilità se gli impianti dell’Ilva sono stati per anni fonte di malattie e morte, segnerà una tappa fondamentale nella ricerca di verità e giustizia per gli operai e i cittadini. Morti, spesso, due volte.
La prima respirando sostanze cancerogene non rilevate da adeguati sistemi di monitoraggio, tutt’ora assenti, la seconda subendo il peso di quelle stesse sostanze sulla propria tomba, rossa come il minerale che ricopre il cimitero del rione Tamburi. Per i periti del giudice Patrizia Todisco sono stati ben 174 i decessi nel periodo compreso tra il 2003 e il 2010 attribuibili ai veleni del siderurgico, un dato – drammatico per consistenza ed eloquenza – già processualmente acquisito, come non sarà in discussione, vista la formula dell’incidente probatorio utilizzata, l’aumento di malattie polmonari e cardiovascolari nei residenti nei quartiere più vicini a impianti e ciminiere.
Ma la storia dell’Ilva non si è fermata il 26 luglio del 2012, quando furono arrestati proprietari e dirigenti e quando si cercò – senza riuscirci – prima per cause tecniche, data la complessità produttiva dell’acciaieria più grande d’Europa poi per volontà politica, scandita da ben cinque decreti legge – di bloccare gli impianti inquinanti fino alla loro messa a norma, più volte annunciata e sempre puntualmente rinviata.
L’inquinamento dell’Ilva non è finito – purtroppo – quel giorno ma continua ancora oggi. Certo, di meno, perché lo stabilimento funziona a regime ridotto, con una produzione pari alla metà di quella degli anni in cui la famiglia Riva macinava utili per centinaia di milioni di euro, e perché lentamente vengono adempiute prescrizioni contenute nelle Autorizzazioni integrate ambientali del 2011 e del 2012, autorizzazioni dalla dubbia utilità e dalla mai del tutto chiarita legittimità, visto quanto emerso nell’indagine.
Ma la fabbrica ancora inquina, le nuvole rosse di slopping ancora colorano di rosso il cielo della città dei due mari come risulta dai rapporti, redatti di recente dai carabinieri del Noe e dai custodi, in possesso dell’autorità giudiziaria, senza che di converso si dica ai tarantini, per chi ritiene l’acciaieria strategica per il futuro dell’Italia, il numero di malattie e morti accettabili, il punto reale di equilibrio tra salute e lavoro, il livello di mediazione tra i due diritti. Ammesso, e Costituzione alla mano non concesso, che ce ne sia uno.
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