Delocalizzazioni, un altro mito che crolla. [Ma gli imbecilli restano!]
Finalmente, anche il Corrierone ha scoperto il reshoring, ovvero il rientro delle imprese italiane delocalizzate in Paesi «emergenti», in particolare la Cina[1]. Il fenomeno del reshoring è ormai massiccio – è in corso almeno dal 2008 – e riguarda oltre all’Italia i principali Paesi industrializzati, a partire da Usa e Germania[2].
Le delocalizzazioni avevano dato la stura alle chiacchiere di molti sinistri cialtroni. Incapaci di vedere oltre la punta del proprio naso, costoro cianciarono di nuovi orizzonti per il capitalismo, ipotizzando che alla crisi in Occidente corrispondesse lo sviluppo in Oriente. Sorvolo sull’incongruenza di tale ipotesi…inalmente, anche il Corrierone ha scoperto il reshoring, ovvero il rientro delle imprese italiane delocalizzate in Paesi «emergenti», in particolare la Cina[1]. Il fenomeno del reshoring è ormai massiccio – è in corso almeno dal 2008 – e riguarda oltre all’Italia i principali Paesi industrializzati, a partire da Usa e Germania[2].
Le delocalizzazioni furono stimolate da motivi molto contingenti (e di meschino orizzonte): bassi salari, assoluta flessibilità del lavoro e favorevoli condizioni normative, soprattutto in campo fiscale. In poche parole: molto sfruttamento e poche tasse.
Ma non è tutto oro ciò che luccica. Il capitale pretende l’oro vero.
Passato il primo entusiasmo, saltarono fuori le magagne: le infrastrutture, dai trasporti alle telecomunicazioni, sono del tutto carenti. Magari c’è anche da far i conti con le mafie locali … Bisogna poi considerare la qualità del lavoro, o meglio il know-haw, che non si improvvisa dall’oggi al do-mani, è il frutto di decenni, se non di secoli, di una diffusa attività industriale.
Last but not least, le produzioni che le imprese italiane hanno delocalizzate, per es. in Cina, sono in gran parte destinate a tornare in Patria o in Paesi occidentali, dove si trovano a competere con merci analoghe prodotte dalle industrie cinesi, altrettanto a basso costo e altrettanto scadenti. Venuto meno l’originario differenziale competitivo, il gioco non vale la candela. Tanto più che le recenti «riforme» del lavoro hanno notevolmente abbassato i costi di produzione anche in Italia e nei Paesi di vecchia industrializzazione. Mantenendo, e spesso implementando, tutti i vantaggi acquisiti in termini di know-haw.
Non solo. Alla base del reshoring c’è un altro fattore altrettanto importante, se non di più.
L’attuale crisi del modo di produzione capitalistico sta sconvolgendo tutti gli assetti di economia politica che, nel corso del Novecento, si erano faticosamente stabiliti nei Paesi capitalisti degni di questo nome (il cosiddetto modello keynesiano-fordista). Attualmente, il furioso abbattimento dei costi di produzione, che vede prevalere l’estor-sione di plusvalore assoluto rispetto al plusvalore relativo, è accompagnato da una crescente polarizzazione della ricchezza (indice di Gini), cui corrisponde, per «legge» di mercato, la predominanza delle merci di lusso, la cui produzione non può certo essere delocalizzata in aree poco affidabili.
La Cina non replica l’Inghilterra
Per quanto riguarda la critica dell’economia politica (cui è sempre bene attenersi), il reshoring conferma che la «Cina non replica l’Inghilterra», come affermò e sostenne Silvio Serino, in tempi non sospetti[3]. Prima che la crisi del modo di produzione capitalistico scoppiasse con tutto il suo impeto (autunno 2008), nonostante i sintomi fossero ormai evidenti, i soliti apologeti del capitale non solo contestavano l’eventualità di una crisi, ma prospettavano per il capitalismo un radioso futuro, ancorché turbolento, grazie al decollo dei cosiddetti Brics, ovvero i Paesi capitalisti emergenti (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).
Ancor prima che la dura realtà balzasse agli onori della cronaca, ho avuto occasione di descrivere le acque tempestose in cui navigano i Brics (per inciso, mi rifiuto di annoverare la Russia tra i possibili Paesi emergenti!).
Queste considerazioni conducono a una questione assai cruciale, con la quale sarebbe opportuno confrontarsi: il capitalismo cresciuto in serra calda genera mostri. Su cui mi soffermo, seppur brevemente, nel mio Quale rivoluzione comunista oggi[4].
Dino Erba, Offenbach, 14 luglio 2014.
[1] Dario Di Vico, In Cina non trovano la qualità e le fabbriche tornano in Italia, «Corriere della Sera», 5 luglio 2014.
[2] Vedi Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, La Casa Usher, Lucca, 2014, p. 35.
[3] Silvio Serino, La Cina non replica l’Inghilterra, in Aa. Vv., Pericolo giallo o tigre di carta. Perché la Cina ci interessa, Atti del Convegno, Torino, Cascina Marchesa, 27 ottobre 2007, PonSinMor, Gassino (Torino), 2008.
[4] Dino Erba, Quale rivoluzione comunista oggi. Problemi scottanti del nostro movimento, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2014, p. 11.
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