Redazione di Operai contro,
La partecipazione di operai dell’indotto Ilva, dell’Eni e della Cementir al corteo di protesta organizzato da Confindustria a Taranto il 1° agosto “in difesa dello sviluppo, dell’industria e del lavoro” ha suscitato sconcerto, dubbi e interrogativi in molti “militanti di sinistra”. “No alla città dei no” era lo slogan impresso sulla maglietta bianca indossata da molti manifestanti. Il riferimento era ai veti e agli ostacoli che stanno incontrando a Taranto gli investimenti industriali a partire da quello di “Tempa Rossa”, la base logistica del petrolio che Total, Shell e Mitsui vogliono estrarre dall’omonimo giacimento della Basilicata. Progetto che prevede che Taranto sia centro di stoccaggio e spedizione del greggio, ma che incontra, almeno per ora, l’opposizione del Comune tarantino.
Ebbene, c’è chi ha gridato allo scandalo, chi ha provato sgomento, chi non è riuscito a spiegarsi tale “unità di intenti” degli operai con i padroni. C’è chi ha accusato gli operai “imborghesiti” di badare egoisticamente solo al proprio tornaconto, alla garanzia del salario, senza tenere conto dei gravissimi problemi sanitari e ambientali causati a Taranto dall’inquinamento provocato innanzitutto dalle grandi industrie.
Per quanto non si sappia con precisione quanti operai abbiano realmente partecipato a una manifestazione di due-tremila persone, nella quale in prima fila stavano industriali, quadri dirigenti, tecnici, scagnozzi di vario tipo (capiofficina, capireparto, ecc.) e membri dell’aristocrazia operaia di quelle fabbriche, è certo che anche alcuni (quanti?) semplici operai hanno sfilato.
Ebbene, che c’è da meravigliarsi che questo sia accaduto? Davanti all’adesione degli operai a quella manifestazione rimane sbigottito chi operaio non è, chi non vive, non lavora, non patisce e non muore in fabbrica, chi, in realtà, ha ben solide fonti di sostentamento per sé e la propria famiglia.
Forse è la prima volta che a Taranto alcuni operai sfilano con i padroni e i loro fidi scherani, ma non è la prima volta che scendono in piazza sobillati, guidati e organizzati dai padroni. Era già accaduto a luglio e a settembre 2012, solo per citare casi emblematici, quando la dirigenza dell’Ilva e i sindacati di categoria Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil avevano spedito gli operai nelle piazze e per le strade a fermare l’intera città con blocchi stradali in segno di protesta prima contro la decisione del gip Patrizia Todisco di bloccare la produzione dell’Ilva e sequestrare l’impianto siderurgico, poi contro la bocciatura, da parte dello stesso gip, della richiesta dell’Ilva di continuare a produrre e del relativo piano di investimenti immediati per risanare gli impianti sequestrati. Sindacati che, per inciso, hanno giudicato “meritoria” la manifestazione indetta dagli industriali.
Quante volte i padroni hanno legato la sorte degli operai al destino della fabbrica, dandogli briciole nei periodi di accumulo dei profitti e buttandoli in mezzo alla strada in quelli di crisi? Quante volte i padroni hanno detto agli operai che la fabbrica è la barca comune, salvo poi buttare a mare gli operai e salvarsi essi? E quante volte i padroni hanno esercitato il ricatto della perdita del posto di lavoro, nelle forme più ignobili e disparate, per tenere in pugno gli operai e costringerli a ubbidire ai loro voleri e ordini? Quando diciamo e scriviamo che gli operai, in primo luogo gli operai delle fabbriche, sono i moderni schiavi, oggi salariati, non lo facciamo per moda. Lo schiavo è colui che è posto in stato di totale asservimento al suo padrone, fino a essere considerato come sua proprietà. E non è forse questa la condizione degli operai nelle fabbriche? In tutte, dalle più grandi alle più piccole? Non è questo lo stato economico-sociale anche degli operai dell’Ilva, dell’indotto Ilva, dell’Eni e della Cementir? Costretti a lavorare ed essere sfruttati in luoghi di vera e propria detenzione, dove si entra senza la certezza di uscirne vivi o almeno integri, dove si è costretti a subire regole, ordini, ritmi, ricatti estranei a ogni sana condizione umana! Costretti a mendicare giorno per giorno il mantenimento del posto di lavoro senza alcuna sicurezza per la propria vita e salute, costretti a produrre, insieme con le merci, inquinamento mortale e quindi malattie e morte in primo luogo per se stessi e poi per i quartieri operai vicini alle grandi industrie e tutti i malcapitati tarantini!
Non c’è nessun operaio di queste fabbriche che, se potesse, rimarrebbe un altro minuto in quegli orribili luoghi di morte! Immaginate con quale spirito amaro, con quale angosciante alienazione imbocchino le porte e i cancelli che li portano sulle linee di produzione! Eppure continuano a farlo, ma non sono matti! Se lasciassero quel lavoro, che alternative avrebbero oggi? Parliamo di una o più alternative valide e spendibili non per uno o pochi operai, ma per centinaia e migliaia di operai! Nessuna, perché il capitale industriale con le sue enormi fabbriche inquinanti ha distrutto tutto a Taranto e dintorni: la mitilicoltura con le cozze piene di diossina, la zootecnia con le pecore ammalate di diossina, l’agricoltura con frutti e ortaggi imbevuti di potenti inquinanti, il turismo azzerato in una città la cui aria puzza di anidride solforosa, ossidi di azoto e morte.
Se perdessero il posto di lavoro come farebbero gli operai a sopravvivere, come riuscirebbero letteralmente a far campare la propria famiglia? Gli operai dell’Ilva dicono: senza lavoro muoio sicuramente di fame, invece se lavoro mangio e forse riesco a scansarmi il cancro! Insomma meglio feriti che morti! Questa è la realtà concreta degli operai di Taranto e dintorni, la stessa degli operai di Gela, di Priolo e di tanti altri “poli di sviluppo” capitalistici altamente inquinati e senza altre prospettive occupazionali.
È in questa realtà che si radica il ricatto padronale a ogni operaio: “o accetti di lavorare alle mie condizioni e di stare sempre e comunque dalla mia parte oppure vai via, tanti migliaia di altri morti di fame come te sono pronti a prendere il tuo posto”! Se questa è la realtà, perché ci si meraviglia che l’operaio sfila e manifesta con il proprio padrone quando questo chiede soldi allo stato per mantenere aperta la fabbrica? In assenza di un ruolo egemone anche solo di parte della classe operaia nella lotta economica e politica contro i padroni, in primo luogo i capitalisti industriali, è purtroppo “normale” che operai di una o più fabbriche mettano la propria vita nelle mani del padrone e uniscano le proprie prospettive a quelle di lui. Per chi sta fuori da quelle fabbriche è facile giudicare con la pancia piena, bisogna stare al posto di quegli operai, nella loro precisa realtà, per capire le ragioni di certi comportamenti.
La comprensione materialistica delle ragioni di tali comportamenti non significa tuttavia la loro approvazione. Se la guerra fra operai porta solo acqua al mulino dei padroni, anche il consenso, tacito o aperto, verso posizioni perdenti conduce nella stessa direzione. La consapevolezza della debolezza (e obiettiva arretratezza politica e organizzativa) di tanti operai deve semmai funzionare da stimolo ulteriore per far conquistare agli operai più avanzati, giorno per giorno, con le unghie e con i denti, con perseveranza e dedizione, quel ruolo egemone sociale che potrà attrarre anche gli operai oggi più deboli e in difficoltà, aiutandoli a scindere i propri interessi da quelli dei loro padroni.
SALUTI OPERAI DALLA PUGLIA
Invio un comunicato sulla partecipazione a parte di alcuni operai alla manifestazione della confindustria
Comunicato stampa, 05/08/2014
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Il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti prende le distanze da chi ha insultato i lavoratori che, lo scorso 1 agosto, hanno preso parte alla manifestazione promossa da Confindustria. Abbiamo avuto modo di constatare che tanti di loro potrebbero aver partecipato a quel corteo solo perché precettati, ricattati o comunque male informati sulla manifestazione stessa.
Pur non condividendo le motivazioni di quell’iniziativa, tant’è che avremmo voluto manifestare in strada quello stesso giorno il nostro dissenso, non possiamo non ricordare che i lavoratori sono le prime vittime dell’inquinamento e dei ricatti perpetrati da anni a Taranto. Non tutti, però, devono pensarla così. Tanto sui social network quanto la mattina dell’1 agosto, più di qualcuno ha apostrofato come “assassini” e “complici” dell’inquinamento i lavoratori che hanno sfilato dal porto alla Prefettura. Sarebbero da considerare come tali anche i precari e i disoccupati che inviano quotidianamente domande di lavoro all’Ilva? Anche coloro che accettano altrove un posto di lavoro malpagato e senza garanzie? Occorre fare passi in avanti rispetto al 2 agosto 2012 anziché involversi nuovamente rendendo vano lo sforzo compiuto da ogni singolo individuo in questi due anni. Condanniamo fermamente questi gesti che spingono inevitabilmente ad individuare fantomatici colpevoli tra i propri fratelli. Non accettiamo, come nel caso della manifestazione di Confindustria, che i carnefici si travestano da vittime ma nemmeno che le vittime vengano additate come carnefici. Occorre ristabilire ruoli, posizioni e responsabilità in quest’epoca in cui i media ed i potenti stabiliscono quale realtà mandare in onda di volta in volta.
Il Comitato ribadisce che solo passando attraverso l’unione tra cittadini e lavoratori sarà possibile auspicare un futuro cambiamento per la città di Taranto. Fino a quando qualcuno continuerà a ritenere i lavoratori i colpevoli della situazione di degrado, povertà ed abbandono in cui viviamo, difficilmente le cose potranno cambiare.
Si senta “complice”, invece, chi opera senza riflettere a beneficio di chi vuole che città e operai siano divisi e inconcludenti.
Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti