STORIE DI VITA

STORIE DI VITA DI UNA BRACCIANTE. Questo scritto è la sintesi di tante situazioni di vita vissuta raccontatomi da mia sorella, bracciante stagionale in Puglia, ma rappresentano anche l’esperienza di vita della mia gioventù: anche se sono insegnante sono di origini proletarie. Per questo, alla fine mi firmo “una bracciante” perché nulla di ciò che è scritto è inventato, ho solo “prestato la tastiera”descrivendo storie e impressioni reali. Invito i lettori braccianti a condividere questo scritto intervenendo, se possibile, su questo telematico. PIERO DEMARCO STORIE DI VITA DI UNA BRACCIANTE. Sono una bracciante pugliese, una delle tante che mandano […]
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STORIE DI VITA DI UNA BRACCIANTE.

Questo scritto è la sintesi di tante situazioni di vita vissuta raccontatomi da mia sorella, bracciante stagionale in Puglia, ma rappresentano anche l’esperienza di vita della mia gioventù: anche se sono insegnante sono di origini proletarie. Per questo, alla fine mi firmo “una bracciante” perché nulla di ciò che è scritto è inventato, ho solo “prestato la tastiera”descrivendo storie e impressioni reali. Invito i lettori braccianti a condividere questo scritto intervenendo, se possibile, su questo telematico.

PIERO DEMARCO

STORIE DI VITA DI UNA BRACCIANTE.

Sono una bracciante pugliese, una delle tante che mandano avanti le infinite distese di tendoni di vite e gli orti delle campagne del sud est barese. Sopratutto nel periodo della raccolta dei prodotti agricoli, ogni mattina nei Bar della zona, già alle 5 ,  vi è un andirivieni di uomini e donne che si accingono  ai lavori dei campi. Ho già più di 40 anni di lavoro di campagna alle spalle, passati sotto il sole dell’estate, ma anche al freddo e la pioggia in inverno, e li avverto tutti sulle mie ossa.

D’estate c’è il lavoro nei tendoni di uva da tavola, si comincia con il diradamento degli acini immaturi (acinino), si prosegue, poi con la raccolta delle varie varietà che maturano scalarmente fino a Dicembre. La mattina ci si alza presto, già alle quattro e mezzo si è in viaggio, una sosta ad un bar per essere sul posto di lavoro appena sorge il Sole, ma già il viaggio è un problema, bisogna decidere se usare la propria auto, consumando i soldi del carburante, oppure farsi trasportare dai caporali di turno decurtando 5 euro o più dalla già misera paga giornaliera.

In piena estate, con il caldo asfissiante, stare sotto i teloni che ricoprono i tendoni è veramente insopportabile, il tempo non passa mai, anche perché i padroni impongono ogni anno un allungamento della giornata lavorativa, senza il pagamento di straordinari. Se una volta, anticipando l’inizio del lavoro, si staccava alle 14,00, con circa sette ore lavorative, ora ti chiedono di fare 8, 8 e mezzo quasi ininterrotti con solo mezz’ora di pausa! Quando poi hanno fatto  da poco i trattamenti, i  vapori dei prodotti ti entra nei polmoni e rende tutto più insopportabile! Massacrante, la sera mi rimane giusto la forza per una doccia e poi a letto perché la mattina bisogna svegliarsi presto.

In inverno, con la raccolta delle verdure, come le cime di rapa, il nemico è l’umidità, anche quando piove bisogna continuare a lavorare, allora sotto gli impermeabili il sudore è un tutt’uno con l’umidità penetra nelle ossa, ma almeno le giornate sono più corte e la giornata lavorativa si riduce necessariamente.

Alla fine della giornata cosa mi rimane? Poco più di 35 Euro tolte le spese, i “contributi per il caporale”, giusto il necessario per sopravvivere, se vai al supermercato si volatilizzano e della tua giornata lavorativa non rimane niente! E di più di 40 anni di lavoro dei campi cosa rimane? Una bronchite cronica, probabilmente dovuta anche ai vapori di prodotti pesticidi respirati in questi anni, un ernia al disco incipiente, reumatismi vari. A parte la paura di prendere qualche brutto male, come avviene ogni tanto con qualche mia collega.

I tempi, però, stanno sempre più peggiorando, rapidamente. Una volta le nostre zone rappresentavano quasi un’isola felice del meridione, ma anche di molte aree agricole d’Italia: le ore lavorative erano quasi sempre rispettate, quando si facevano delle ore in più venivano pagate, e sempre venivamo ingaggiati, il lavoro nero era quasi sconosciuto. In questo modo percepivamo regolarmente la disoccupazione agricola che integrava il salario percepito durante l’anno. L’ispettorato del lavoro faceva spesso irruzione nei campi per controllare la regolarità dei contratti dei braccianti impiegati. Da un po’ di tempo, invece, i padroni hanno carta bianca  e stanno sempre più prendendo il sopravvento: le paghe sono ferme da almeno 10 anni, i sindacati sono quasi scomparsi dai campi, così come gli ispettori. Si percepisce il cambio dei tempi. Adesso che i margini di profitto si stanno riducendo, i padroni si stanno riprendendo, con gli interessi, ciò che hanno concesso dopo anni di lotte. Ci rinfacciano i “nostri privilegi”, rispetto ai braccianti del foggiano e del leccese, ci ripetono, in modo ossessivo: “se non ci state alle nostre condizioni i sono tanti disperati pronti a prendere il vostro posto”. Allora, sotto questo ricatto, si accettano condizioni lavorative sempre peggiori, quasi disumane. Ma la cosa che mi fa più incazzare è l’atteggiamento remissivo e compiacente delle mie colleghe, cercano in tutti i modi di entrare nelle grazie dei datori di lavoro o dei caporali: nei trasferimenti da un campo all’altro si mettono a guidare come piloti di formula 1 per dimostrare che non perdono un minuto di tempo. In un’occasione mi sono fermata e ho aspettato che mi venissero a cercare, e dopo ho detto: “Siete matti io non rischio la vita per il lavoro, se volete licenziatemi”, da allora questa assurda gara è finita.

Negli ultimi tempi ci stanno proponendo di allungare la giornata lavorativa a 10 ore giornaliere, sembra che tutti i padroni si stiano passando la voce: “queste sono le condizioni, se non vi conviene ci sono tanti pronti ad accettare”, ma sulle strisce paga che rilasciano fanno spuntare 6,40 ore lavorative e 61 Euro di paga giornaliera, un furto!

Alle volte mi chiedo dove è andato a finire il frutto del mio, e del nostro, lavoro poi vedo le macchine e le case di lusso di tanti che speculano sulla produzione agricola e capisco. A me, invece, rimangono i reumatismi, i mal di schiena e la bronchite cronica.

UNA BRACCIANTE

 

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2 Comments

  1. Operai in lotta

    La “storia della bracciante pugliese” descrive la realtà nuda e cruda di migliaia di operaie dei campi, in Puglia e altrove in Italia. La corsa al profitto dei moderni capitalisti agrari succhia e distrugge come un cancro la vita di migliaia di operaie.
    Operaie, donne, perché le loro mani, piccole, sono più adatte per operazioni delicate come l’eliminazione dai grappoli degli acini piccoli e immaturi o guasti, oppure la raccolta e il confezionamento dell’uva da tavola in campo o in magazzino; ma anche perché più facili da mettere in competizione le une con le altre, da ricattare con la paura di perdere il lavoro, da pagare meno degli uomini.
    Operaie unite in squadre governate da uomini fidati al servizio del padroni, al lavoro o nei campi, sotto qualsiasi intemperie o rischio, oppure nei magazzini, vere e proprie fabbriche dove schiere di operaie, in rigoroso silenzio e sottoposte ai tempi dettati dalle macchine, si affrettano a mettere uva, frutta, ortaggi in cestini e questi in cassette.

    Questa è la realtà di tanti operai italiani, una realtà semisconosciuta, nascosta e confusa, per quel poco che si parla e si dice dell’agricoltura, dalle storie degli agricoltori più o meno vip che coltivano prodotti tipici, che scelgono il biologico, che “soffrono” l’embargo russo e così via.
    Una realtà che, andando più a fondo, presenta altre sfaccettature, altre storie, persino peggiori, se possibile, della storia della bracciante pugliese che vive e lavora nel sud-est barese.
    Le storie delle operaie brindisine, tarantine e leccesi che si alzano alle tre del mattino per salire su un pullman guidato da un caporale al servizio diretto o indiretto di un capitalista agrario barese, foggiano o metapontino per andare a raccogliere, a centinaia di chilometri di distanza da casa, fragole, uva, frutta, ortaggi, per tornare a casa sfinite nel pomeriggio pieno o tardi, con in tasca, dopo aver pagato la “tangente” al caporale per la “assunzione” e il trasporto, una manciata di euro per far sopravvivere la famiglia, e l’indomani alle tre di notte punto e daccapo.
    Le storie dei braccianti africani ed est-europei, disposti a sfiancarsi dieci e più ore al giorno per 20 euro, a raccogliere pomodori o angurie, per poi rintanarsi in ghetti-discariche umane dove, ad andarci dentro, viene da rivoltarsi al vedere come il capitalismo degrada l’essere umano.
    E oggi la corsa dei capitalisti agrari per contrastare la caduta dei profitti e accaparrarsi, in guerra gli uni con gli altri e contro i padroni della moderna distribuzione (discount, super e ipermercati), la maggior parte possibile del plus valore estorto ai braccianti porta al giro di vite al quale si assiste nei campi (così come in fabbrica): aumento delle ore di lavoro, dei ritmi, dei rischi e degli infortuni, dello sfruttamento, per tutti gli operai.
    Questo è il capitalismo, anche nelle campagne, una macchina infernale che logora e stritola senza pietà operaie e operai, un tallone di ferro che schiaccia e ammazza per poter, esso, sopravvivere. Per le operaie e gli operai dei campi unica soluzione, seppur lenta, difficile, è legarsi fra di loro e alle operaie e agli operai delle fabbriche, unirsi in un partito autenticamente operaio per diventare più forti e combattivi. Non c’è altra strada.

  2. piero

    Sono pienamemte daccordo, la causa di tante sofferenze ha un nome: il capitalismo, che ritiene le persone delle semplici merci, dei fattori produttivi. Il livello di sfruttamento che si raggiunge in alcune aree del mondo raggiunge livelli indicibili, peggiori dei primi dell’ottocento, l’umanità non ha mai conosciuto un livello di disuguaglianza come quello attuale, la misura è colma. Condivido, chiaremente, la conclusione bisogna costruire il partito operaio, l’unica strada possibile.