La guerra in Ucraina continua. Vi invio un articolo del corriere
Un lettore
La risposta a un colpo di mortaio piombato qualche centinaio di metri di distanza è il lento movimento della mano che dalla tasca estrae un accendino e una sigaretta. Nikolai ci guarda e sorride, appoggia la schiena a un albero e dice: “E’ normale, non ci possono prendere”. Siamo accucciati dietro a una staccionata esattamente nel cratere aperto da un altro colpo di artiglieria pesante, caduto su un palo della corrente pochi giorni prima. Il quartiere di Petrovskiy si trova all’estrema periferia nord di Donetsk, nell’Ucraina dell’est. La città è sotto il controllo dei separatisti filorussi, ma a pochi chilometri il villaggio di Mariinka è invece territorio ucraino. Da lì arrivano le bombe che cercano di colpire le miniere di carbone che circondano Donetsk, ma spesso raggiungono le case dei civili, distruggendole.
I tamburi delle bombe si fermano lasciando solo puzza di bruciato e le teste escono in superficie per respirare l’aria della guerra. Una mano, poi una testa bionda, poi un’altra, poi una risata. La città sotto la città si chiama rifugio e le famiglie si sono allargate così da creare comunità di 70, cento persone. Senza patria, senza casa. La prima l’hanno persa una volta abbracciata la causa dei ribelli acconsentendo ad essere parte della Repubblica Popolare di Donetsk, la seconda è stata semplicemente cancellata dall’artiglieria pesante. Uno stato non riconosciuto da nessuna altra nazione al mondo e che nei mesi ha trovato supporto, seppur non esplicitamente dichiarato, soltanto dalla Russia che, di continuo, invia oltre il confine truppe e uomini.
A un metro sotto il livello della strada ci sono sono più o meno duecento metri quadrati di terra schiacciata, divisi in tre stanze. Le pareti di cemento armato sudano umidità e sputano polvere e terriccio quando la bomba cade un po’ troppo vicina. Le porte sono state sostituite da barricate di sacchi, per coprire l’entrata dal freddo e dagli spari di una possibile invasione della cavalleria ucraina. E l’ingresso è soltanto un buco per terra.
Ogni cantina può essere un rifugio, ma nei distretti più popolari e periferici ci sono bunker che risalgono ancora al periodo sovietico tornati a funzionare un paio di mesi fa. In quello di Petrovskiy vivono da metà luglio settanta persone. Molti anziani, tanti bambini dagli undici mesi ai 16 anni. Gli uomini di giorno lavorano oppure combattono e le donne dirigono la grande casa. Come è successo anche per l’esercito ucraino, le milizie filorusse sono andate a caccia di riservisti. Mancano gli uomini ma non le armi e a ogni ragazzo in grado di combattere è stato dato un fucile, una mimetica comprata al mercatino (non è difficile vedere divise italiane, tedesche, inglesi indossate dai separatisti così come dagli ucraini) e assegnato un battaglione. E chi ha famiglia può tornare alla sera a dormire con moglie e figli. Così di notte il rifugio si popola.
Come un temporale
Da tre giorni a Donetsk c’è sempre il rumore di sottofondo dei missili Grad nella zona dell’aeroporto. Da quando a giugno i ribelli si sono impossessati dello scalo, l’esercito ucraino ha iniziato la battaglia. E anche ora che è tornato sotto il controllo governativo l’attacco micidiale non si ferma, anzi si è intensificato negli ultimi dieci giorni di settembre. Ma per la piccola Irina è solo il temporale. Per questo chiede ad Anna, la mamma, di leggere la storia di Pinocchio, soprattutto di quando il burattino è in mezzo a una tempesta nel mare perché la bimba immagina che il suono delle bombe sia in realtà quello delle onde e del vento. I colpi sul terreno rimbombano sottoterra, creando un tonfo sordo e vibrante. Irina ha sempre sotto braccio il libro di Collodi nel rifugio di Petrovskiy.
Anche se i bimbi hanno le facce coperte da fuliggine sono puliti. Le magliette sono ordinate e le ragazzine si truccano gli occhi davanti a una scheggia di specchio. Rostic ha 3 anni, è timido come sua madre Alina che ha solo 21 anni ma ha già tre figli, la più piccola ha undici mesi. Rostic ci sente parlare in italiano, lo chiamiamo “piccolo” e lui ripete la parola all’infinito, seguendo la telecamera che indaga gli angoli del rifugio. Così fa da guida. I cavi elettrici sono arrotolati sul soffitto, la corrente c’è solo per due ore al giorno, altrimenti si usano le candele, l’acqua viene regalata da chi ha ancora una casa nel quartiere, così pure il bagno per lavarsi. Si cucina fuori, sul fuoco, ma solo quando non è pericoloso, altrimenti cibo freddo, seduti sui materassi. I bambini hanno la loro camera e al centro c’è la culla della più piccola. Tutti sono fratelli maggiori e prima di essere lì, nessuno di loro conosceva l’altro.
Le promesse dei ribelli: scuole e pensioni
Un primo passo per svuotare i rifugi potrebbe essere la scuola. In Ucraina è già iniziata da un mese ma non nell’est dove molti edifici sono inagibili. Nei villaggi dove i bombardamenti sono meno frequenti gli insegnanti organizzano gruppi di studio nelle proprie abitazioni, ma a Donetsk è più complicato. La Repubblica Popolare ha promesso che dal primo di ottobre le scuole verranno riaperte, ma “come posso uscire dal buco e portare i miei figli in classe? Le bombe cadono soprattutto di giorno”, racconta una mamma. Il 29 settembre davanti ad alcuni istituti sono stati chiamati a raccolta gli studenti per fare l’appello e capire in quanti sono rimasti in città così da organizzare le lezioni. Ma meno della metà ha alzato la mano al suono del proprio nome.
Un altro incentivo per abbandonare i buchi sotterranei potrebbero essere stipendi e pensioni. Il governo dei separatisti ha annunciato che, sempre dall’inizio di ottobre, arriveranno le pensioni ferme da maggio, ma anche se tutti hanno una fiducia incrollabile verso la Dnr nessuno crede che questo potrà mai accadere.
Un Paese gestito dai volontari
Chi invece ha qualche soldo da parte ha preo l’auto e si è messo in viaggio verso nord oppure l’ovest. Kiev o Dnipropetrovsk, in mano all’esercito ucraino. A Kiev un prete ortodosso ha aperto la sua casa a una ventina di famiglie. Sempre nella capitale esiste un solo centro per gli aiuti umanitari ed è un’associazione non governativa. Lo Stato non aiuta i profughi né gli ospedali: ufficialmente il suo bilancio è in rosso perciò si affida al buon cuore degli ucraini e di qualche investitore con grossi interessi economici nella guerra. I volontari accolgono ogni giorno oltre 200 famiglie e offrono loro assistenza psicologica, medicine, cibo e vestiti. Hanno aiutato anche Andrei che non riesce a pronunciare bene il suo nome perché balbetta moltissimo. E’ scampato per due volte ai bombardamenti che hanno raso al suolo la sua casa nell’est e per la paura non riesce più a parlare.
La tregua fantasma
La tregua siglata il 5 settembre tra ucraini e filorussi, già vacillante sulla carta, sul campo di battaglia è praticamente inesistente. Il 29 settembre 9 soldati ucraini, 3 miliziani e 4 civili sono stati uccisi a Donetsk: sono 60 le vittime dall’inizio del cessate il fuoco. Piovono bombe da Donetsk a Mariupol, fino al confine con la regione russa di Rostov. Manca l’acqua, il gas, la corrente elettrica: Lugansk è la città più devastata senza servizi né cibo da oltre un mese. Le strade sono un percorso a ostacoli tra i buchi lasciati dai colpi di mortaio e le pompe di benzina sono ricoperte da sacchi di terra per evitare che possono saltare in aria. E dalle 22 cala il coprifuoco.
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