Spettabile Redazione,
dopo la toccante testimonianza della bracciante che avete pubblicato la settimana scorsa “Storie di vita”, e il dibattito che ne è seguito, vi segnalo questo articolo dell’Espresso che denuncia la condizione delle braccianti nel ragusano.
Saluti da un lettore
Nel silenzio dei campi a Ragusa
Il nuovo orrore delle schiave rumene
Cinquemila donne lavorano nelle serre della provincia siciliana. Vivono segregate in campagna. Spesso con i figli piccoli. Nel totale isolamento subiscono ogni genere di violenza sessuale. Una realtà fatta di aborti, “festini” e ipocrisia. Dove tutti sanno e nessuno parla.
VITTORIA (RG) – «Possono prendere il mio corpo. Possono farmi tutto. Ma l’anima no. Quella non possono toccarmela». Alina mi indica un locale in mezzo alla campagna. «Lì dentro succede tutte cose possibili». È uno dei pochi edifici che interrompe la serie infinita di serre. Il bianco dei teli di plastica va da Acate a Santa Croce Camerina. Siamo a Sud di Tunisi, terra rossa e mare azzurro che guarda l’Africa. Siamo nella “città delle primizie”, uno dei distretti ortofrutticoli più importanti d’Italia. Il centro di un sistema produttivo che esporta in tutta Europa annullando il tempo e le stagioni. Gli ortaggi che altrove maturano a giugno qui sono pronti a gennaio. Un miracolo chimico che ha ancora bisogno di braccia.
I tunisini arrivarono già negli anni ’80, a frontiere aperte. Le dune di sabbia, il clima rovente, le case cubiche più o meno incomplete ricordavano la nazione di provenienza. Hanno contribuito al miracolo economico della provincia – l’oro verde – e poi sono stati sostituiti senza un grazie. Dal 2007 arrivano nuovi migranti che lavorano per metà salario. I rumeni. E soprattutto le rumene. Nell’isolamento della campagna sono una presenza gradita. Così è nato il distretto del doppio sfruttamento: agricolo e sessuale.
FESTINI
Una cascina in aperta campagna. Ragazze rumene sui vent’anni. Un padrone che offre carne fresca ai parenti, agli amici. Ai figli. Tutti sanno e tutti tacciono. Don Beniamino Sacco è il sacerdote che per primo ha denunciato i “festini agricoli”. «Sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare», denuncia il parroco. Tre anni fa ha mandato in carcere un padrone sfruttatore. Ha subito minacce e risposto con una battuta: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
La solidarietà è scarsa, anche tra rumeni. Come è possibile che tutto questo succeda nel silenzio generale? Secondo Ausilia Cosentini, operatrice sociale dell’associazione “Proxima”, «la mancanza di solidarietà tra i rumeni, e la loro mentalità omertosa, si incastra con quella altrettanto omertosa del territorio. In più, da qualche mese noto un aumento dell’intolleranza».
«Se non ci fossero i migranti, la nostra agricoltura si bloccherebbe», dice all’Espresso Giuseppe Nicosia, sindaco di Vittoria. «C’è una buona integrazione, ma la violenza sulle donne è un peso sulla coscienza di tutti. Un fenomeno disgustoso, anche se in regressione». Giuseppe Scifo della Flai Cgil spiega che allo sfruttamento lavorativo si aggiunge la segregazione. Per questo è stato avviato il progetto “Solidal Transfert”, un pulmino che permette di spostarsi senza dipendere dai padroni. «Ho conosciuto rumeni che non erano mai stati in paese», dice.
Uno squillo
«Se sei abituato dalla Romania, qui non è tanto più pesante», spiega Adriana con un sorriso. Non è facile crederci ascoltando la storia di Luana, quaranta anni. I due figli l’hanno raggiunta dopo il suicidio del marito in Romania. Lavora in una serra sperduta nelle campagne di Vittoria, vive in un casolare fatiscente nei pressi. La scuola è difficile da raggiungere a piedi. Il tragitto è lungo e pericoloso per due bambini soli. Il padrone è un signore di Vittoria. Si offre generosamente: «Li accompagno io». La sua non è una richiesta disinteressata.
In piena notte la chiama. Chiede se i bambini si sono addormentati. Le dice di raggiungerlo sotto un albero. Anche il padrone vive lì, a due passi. Con la moglie e un figlio. Luana teme soprattutto le minacce dell’uomo, ha paura per i bambini. A volte si nega. Lui subito minaccia. «Non li porto più a scuola. Niente acqua da bere. Neanche a te. Qui c’è caldo e l’acqua che diamo alle serre è avvelenata. Vuoi andare al supermercato? È molto lontano».
Luana sopporta tutto. Persino quando lui perde la testa e la minaccia con la pistola. Ma quando dice che non porterà più i bambini a scuola, condannandoli all’isolamento più assoluto, pensa che può bastare. Decide di fuggire. Di notte prepara la valigia, prende i bambini per mano. Luana è stata accolta e protetta nel centro di accoglienza dell’associazione “Proxima”. È inserita nei programmi destinati alle vittima di tratta. Come se fosse una storia di prostituzione. Si tratta invece di lavoratrici che producono ortaggi. Quelli che tutti compriamo al supermercato. Dopo un mese ha deciso di andare via. Ora lavora nuovamente nelle serre. Sfruttamento estremo significa anche mancanza di alternative.
Lontano da Seva
La storia di Luana è stata raccolta da Alessandra Sciurba, ricercatrice dell’Università di Palermo. Perché le donne accettano queste condizioni? «In genere sono consapevoli di quello che le aspetta. Ma lo fanno per tenere unita la famiglia». Nelle serre puoi vivere coi bambini. A casa di un anziano no. Meglio quindi fare la contadina che la badante. Per questo ci sono nelle serre tante mamme rumene coi bambini. «Possiamo parlare di un estremo esercizio del diritto all’unità familiare».
Le rumene vengono da Botosani, una delle zone più povere del paese. Anche lì lavoravano in campagna. «Non potevo stare lontana da Seva, sono troppo attaccata», dice Adriana. Sciurba spiega che le rumene possono essere definite bread winner. Sono le prime a partire. I mariti, se arrivano, arrivano dopo. Intanto gli italiani diventano padroni della loro vita e della loro morte. Sono padroni in tutti i sensi. Le rumene hanno una “considerazione inferiorizzata” di tutti gli uomini: tunisini, rumeni, italiani. «Qualunque cosa possono farci, loro sono niente», conferma Adriana.
Un’altra storia raccolta da Sciurba è quella di Cornelia e Marco. Cercavano una situazione tranquilla. Una serra dove portare la bambina e un padrone che tiene le mani a posto. Hanno trovato un lavoro vicino Gela. Dieci ore al giorno, pochi soldi e in nero. La “casa” è una stanza spoglia nel magazzino. «Ma non devi guardare mia moglie», ha chiarito Mario al padrone. Va bene, ha risposto lui. Anche perché c’è un’altra rumena, sposata, che assecondava le sue voglie. Il marito fa finta di niente per non perdere il lavoro.
Nella serra ci sono cani da guardia molto aggressivi. Sono addestrati per sorvegliare e controllare i lavoratori. Un giorno un dobermann azzanna Cornelia e la bimba, ferendo gravemente alla coscia la piccola. «Ci sono voluti quasi 100 punti», dice mostrando la gambetta della bimba. «Io la tenevo in braccio e ho cercato di proteggerla ma è stato impossibile fermare il cane». Arrivano i carabinieri, il padrone dice che l’animale passava per caso. Intanto il dobermann viene nascosto. La rumena che ha una relazione col padrone conferma. Cornelia e Marco devono ricevere ancora 5000 euro. Denunciano l’uomo. La bambina dovrà essere sottoposta a intervento chirurgico per fare in modo che il muscolo possa svilupparsi correttamente.
Almeno i due non pagavano l’affitto. C’è anche chi chiede fino a 300 euro al mese per un rudere. «Ci sono abitazioni piccole e senza infissi», rivela una ricerca condotta dall’“Associazione per i diritti umani”. «I buchi nel soffitto fanno passare l’acqua piovana. Le mura sono erose dall’umidità. Proliferano i miceti, con conseguenti patologie come l’asma in soggetti, soprattutto in tenera età, prima perfettamente sani. Il tutto nel totale disinteresse del locatario». Nella zona sono intervenuti sia Emergency che Medici Senza Frontiere. Come fosse una zona di guerra e non un distretto produttivo. Spesso gli operatori affermano che certe cose (letti di cartoni, cucine col fornelletto a gas, magazzini adattati ad abitazione) non le hanno viste nemmeno in Africa.
L’anima non me la toccano
È il più spaventoso dei metodi contraccettivi. Vittoria è il primo comune in Italia per estensione delle coltivazioni plastificate e per numero di aborti in proporzione al numero di abitanti. Va avanti così da anni. Spesso le rumene sono giovanissime. Arrivano in ambulatorio accompagnate da uomini, in genere italiani ma a volte anche tunisini e albanesi. «Restano sedute con lo sguardo fisso a terra e gli uomini parlano al posto loro», racconta un’operatrice dell’Asl. «Anni fa un tunisino mi ha portato tre ragazze rumene, tutte incinta, per farle abortire. Parlavano poco. Quando sono rimasta sola con loro mi hanno detto di lavorare nelle serre di cui lui era proprietario».
«Nel caso specifico di Vittoria le donne si trovano impossibilitate ad interrompere la gravidanza poiché tutti i medici sono obiettori di coscienza», spiega la ricerca dell’“Associazione Diritti Umani”. Solo all’ospedale di Modica sono presenti medici non obiettori, ma la crescita esponenziale di richieste di aborto porta un allungamento dei tempi di attesa, rendendo impossibile l’aborto entro i tre mesi previsti dalla legge. Alcune donne sono costrette a ritornare nei loro paesi d’origine per abortire. Altre, invece, si affidano a strutture abusive e a persone che, sotto cospicuo pagamento, praticano l’aborto senza averne competenza».
L’uomo cacciatore
Per le vittoriesi la colpa è delle rumene. Sono loro a tentare il maschio siciliano, per sua natura focoso. C’è una fortissima rivalità tra donne. L’“uomo cacciatore”, ovviamente, è orgoglioso delle “conquiste”. Vantarsi di queste cose dentro le serre è normale. Molto complessa la figura del marito rumeno, a volte presente anche lui in serra. Sa e non sa, vede e non vede. Se non accetta la situazione, è il primo a essere cacciato.
Di fronte a certi orrori lo sfruttamento sul lavoro passa quasi in secondo piano. Anche se significa salari da dieci euro al giorno, temperature di fuoco sotto i teloni, veleno che può rovinare i polmoni, la pelle, gli occhi. Per non parlare delle “fumarole”. Quando di notte bruciano piante secche e fili di nylon, di mattina si soffoca.
Così si produce l’ortofrutta che troviamo in tutti i supermercati. «Abbiamo circa 3000 aziende agricole di piccola e media dimensione», spiega il sindaco Nicosia. «È la più grossa espressione dell’ortofrutta meridionale, oltre che il mercato è il più importante d’Italia di prodotto con confezionato». Nel 2011 risultavano regolarmente registrati 11845 migranti, una stima di quelli che lavorano nelle serre oscilla tra 15mila e 20mila. Migliaia di schiavi che ci permettono di mangiare ortaggi fuori stagione.
È tutto vero, nella sua piena crudezza.
Questo è il capitalismo, non è altro.
Questi sono i padroni, non sono altro.
Questi sono stati e sono i padroni, non solo oggi e nel comprensorio serricolo di Ragusa, ma sempre e dovunque.
Alcuni anni fa un sindacalista Uil, parlando del caporalato in Puglia, diceva che le donne, le ragazze trasportate dai caporali dalla provincia di Brindisi al Metapontino e nel Sud-Est barese e altrove a lavorare erano in fondo delle poco di buono, perché erano sempre pronte ad alzarsi la gonna per soddisfare le voglie dei caporali e/o dei padroni. Quel sindacalista nascondeva i ricatti e le pressioni che caporali e padroni esercitavano sulle braccianti, pena la perdita del lavoro, del salario che per quelle donne, i cui mariti erano disoccupati, era vitale per mantenere la propria famiglia! Una condizione sociale e umana non diversa da quella del Ragusano, le une romene, le altre italiane, ma sempre operaie e donne, ugualmente sfruttate e violentate.
I padroni hanno sempre utilizzato il sesso come strumento di potere e soggiogamento: delle operaie, delle braccianti agricole, delle contadine povere, delle donne in condizioni di soggezione e bisogno.
Benché non si abbiano documentazioni dei soprusi compiuti dai padroni nel passato, la letteratura realista viene in aiuto. Con le opere di scrittori che, schierandosi apertamente dalla parte degli sfruttati, hanno denunciato i padroni e le loro porcherie. Facendolo con crudo realismo, quel realismo che la borghesia ha sempre cercato di mascherare definendolo, di volta in volta, “naturalismo”, “verismo”, ecc., perché essa odia la parola “realtà” con tutto quello che essa vuol dire. Realismo significa raccontare i fatti come sono, presi dalla realtà sociale quotidiana, quella del massacro sociale perpetrato da padroni di ogni tipo.
Emile Zola, grande scrittore realista francese del XIX secolo, nel romanzo “Germinale” racconta la vita, gli scioperi, la rivolta di minatori in una zona mineraria del nord della Francia, verso la metà del 1800. Descrive con una grande forza narrativa anche come i padroni, e con essi i preti e altri loro amici, abusino di giovani ragazze con la forza e i ricatti. Una delle pagine più forti, e belle, è quella in cui narra delle donne che, con i loro uomini, al culmine della rivolta, recidano con il coltello il membro di uno dei padroni più ributtanti e lo portino, issato su una lancia, come un trofeo, per le strade del paese minerario.
Liviu Rebreanu, grande scrittore realista romeno vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo, nel romanzo “Răscoală”, “La rivolta”, racconta la vita dei contadini poveri della Transilvania intorno alla prima metà del 1800, incentrando la trama su una potente rivolta contro i latifondisti, che facevano la bella vita sul lavoro dei contadini e trascorrevano il tempo costringendo alle loro attenzioni le figlie e le mogli dei contadini. Al culmine della rivolta le donne legano con una corda il membro di uno dei più spietati dei figli dei latifondisti e lo trascinano per le stradine fangose del villaggio fino a staccarglielo, facendolo morire dissanguato.
Zola e Rebreanu non avevano inventato nulla. Raccontavano la realtà di quei tempi, ascoltando il dolore degli sfruttati e facendosi portavoce di essi. Anche dalle loro opere possono venire stimoli a capire e a lottare nella non tanto diversa, al fondo, realtà attuale.