Redazione,
anche il gangster Renzi ha partecipato in rappresentanza dei padroni italiani alla marcia di Parigi.
Mi sembra utile ricordare i massacri italiani in Libia
Un senegalese
da memorimese.it
Campi di concentramento, stragi, esecuzioni sommarie, gas e armi chimiche sono concetti che rievocano inevitabilmente le atrocità della seconda guerra mondiale
Campi di concentramento, stragi, esecuzioni sommarie, gas e armi chimiche sono concetti che rievocano inevitabilmente le atrocità della seconda guerra mondiale: avvenimenti di una tale crudeltà che ancora oggi vengono studiati e raccontati da storici, scrittori e registi. C’è però una altrettanto dura pagina di storia permeata da tali violenze che viene al contrario troppo spesso minimizzata quando non addirittura dimenticata. Ed è una pagina tristemente tutta italiana.
Nel settembre del 1911 il primo ministro Giovanni Giolitti dichiarò guerra all’Impero ottomano con il manifesto obiettivo di conquistare i territori corrispondenti all’attuale Libia, in modo tale da dare un’accelerazione all’espansione coloniale italiana in Africa. Il conflitto si protrasse per più di un anno e terminò con la faticosa vittoria italiana, sancita dal Trattato di Losanna: stipulato il 18 ottobre 1912, l’accordo determinò la cessione all’Italia della Tripolitania e della Cirenaica. Il controllo dei territori conquistati venne affidato al generale Giovanni Battista Ameglio, il quale dovette però far fronte ad un’intensa guerriglia indigena destinata a protrarsi negli anni successivi. Il dominio sulla Tripolitania e (soprattutto) sulla Cirenaica non riuscì dunque ad essere stabile e completo, a causa dei focolai di rivolta che i turchi e gli arabi riuscivano a mantenere costantemente accesi.
L’ascesa al potere del fascismo determinò così un inasprimento della politica italiana nei confronti dei ribelli libici. Mosso da grandiosi progetti imperialistici, nel 1922 Mussolini ordinò al nuovo governatore della Tripolitania Giuseppe Volpi di dare vita ad un altro ciclo di campagne militari, che si concluse nel 1925 con la conquista della pianura della Gefara, dell’altopiano del Gebel Nefusa e delle città di Misurata e Garian; nel frattempo i generali Bongiovanni e Mombelli provvidero a stroncare temporaneamente la resistenza che diversi membri della confraternita islamica dei Senussi ancora opponevano in Cirenaica. Il pieno controllo dei territori libici sembrava dunque finalmente raggiunto, tanto che il 18 dicembre 1928 Mussolini nominò il maresciallo Pietro Badoglio Governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica.
Una volta insediatosi al potere, Badoglio decise immediatamente di intensificare la campagna italiana in Libia, sfruttando le doti strategiche, ma soprattutto la crudeltà e la spietatezza, del generale Rodolfo Graziani, profondo conoscitore della lingua araba e di quei territori. Nel 1930 vennero così occupati il Fezzan e l’oasi di Cufra a seguito di un massiccio bombardamento che provocò centinaia di morti. Per l’occasione vennero utilizzate anche le armi chimiche, mentre i pozzi di acqua potabile furono avvelenati o chiusi con il cemento e l’agricoltura devastata. Corollario dell’assalto furono le violenze e le atrocità commesse dagli italiani nei confronti dei sopravvissuti e di coloro che tentavano la fuga in Egitto, senza alcuna sorta di pietà neanche nei confronti di anziani e bambini. Un sanguinoso antipasto di ciò che accadde a partire dal mese di giugno.
Badoglio era infatti fermamente intenzionato a porre fine una volta per tutte alla resistenza dei Senussi animata in Cirenaica dall’indomabile Omar al-Mukhtar, che, sfruttando il sostegno delle popolazioni locali, impediva di fatto agli italiani di riprendere il controllo della provincia. A capo di un modesto drappello di uomini, che non superò mai le tremila unità, al-Mukhtar scatenò una dura guerriglia contro le truppe italiane, infliggendo loro pesanti perdite. Badoglio e Graziani risposero ordinando alle forze armate di agire in una duplice direzione, colpendo direttamente i Senussi e ricorrendo allo stesso tempo a spietati metodi di rappresaglia contro la popolazione locale accusata di appoggiare i ribelli. I Senussi vennero così privati dei loro beni, immediatamente confiscati, mentre i loro capi religiosi furono deportati in Italia; per impedire poi eventuali fughe o rifornimenti dall’Egitto, Graziani fece innalzare una barriera di filo spinato lunga 270 km dal porto di Bardia all’oasi di Girabub (sede della confraternita senussita), costantemente presidiata dalle truppe italiane.
Alla popolazione locale venne riservato un destino ancora più crudele. Circa centomila persone appartenenti alle tribù nomadi della Cirenaica furono infatti evacuate e, una volta private dei beni personali, deportate in massa all’interno di tredici campi di concentramento appositamente costruiti nelle aree di Bengasi e di Sirte, dopo aver affrontato una marcia forzata di oltre mille km attraverso il deserto. Diverse persone persero la vita già durante il cammino a causa della fame, della sete e della fatica provocata dalla lunga ed estenuante marcia; tutti i villaggi e i centri abitati incontrati durante il percorso furono assaliti e sgombrati, dando vita ad efferate esecuzioni di massa laddove i locali osavano opporre resistenza. Negli stessi campi il tasso di mortalità fu decisamente elevato a causa delle terribili condizioni igienico-sanitarie e della scarsità di cibo e acqua concessi ai deportati, i quali vennero lasciati senza alcuna assistenza o sussidio. Fucilazioni ed esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno per tutti coloro che tentavano la fuga o che si mostravano ostili alle condizioni imposte dagli italiani; i sopravvissuti rimasero internati per tre lunghi anni. Questa tecnica di trasferire le popolazioni civili per impedire ogni appoggio ai resistenti si era di fatto trasformata nelle mani di Graziani in uno strumento di pulizia etnica quando non di vero e proprio sterminio pianificato.
La resistenza dei gruppi legati ad al-Mukhtar non era tuttavia stata ancora debellata, tanto che, per avere la superiorità numerica e tecnologica nei confronti dei guerriglieri, l’esercito italiano creò dei reparti mobili composti da effettivi italiani e da soldati africani reclutati in Eritrea ed in Somalia, di religione cristiana e fortemente avversi ai ribelli musulmani. Per decimare i guerriglieri ed i civili a loro collegati, inoltre, gli italiani ricorsero all’utilizzo di aerei e di autoblindo, pratica fino a quel momento mai adottata in una guerra coloniale. Tale massiccio impiego di uomini e risorse fece pendere l’esito del conflitto a favore delle truppe italiane, che l’11 settembre 1931, durante la battaglia di Uadi Bu Taga, riuscirono a ferire e a catturare al-Mukhtar, che fu trasferito via mare a Bengasi dove fu oggetto di un processo farsa al termine del quale venne emessa la sentenza di condanna a morte. Il 16 dello stesso mese fu così impiccato nel campo di concentramento di Soluch davanti a ventimila libici fatti affluire dai campi circostanti appositamente per assistere all’evento.
La morte di al-Mukhtar segnò la fine della resistenza libica e la definitiva pacificazione dell’area che nel 1934, con l’unione tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, prese il nome di Libia. Il Paese africano pagò la guerra coloniale italiana con un totale di quarantamila morti per fame, violenze, epidemie ed uccisioni. Gli italiani, dal canto loro, persero circa novemila uomini. Ma non per questo la voglia di proseguire, con gli stessi efferati metodi, l’espansione coloniale in Africa: all’alba del 1935 era infatti pronta la conquista dell’Etiopia.
Autore: Federico Chitarin
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