Operai contro,
i borghesi sperano e le tentano tutte
Sono convinti che usciranno dalla crisi con la politica monetaria
La crisi è una crisi di sovrapproduzione
Draghi darà 60 miliardi al mese alle banche, ma non usciranno dalla crisi.
Le banche diventeranno più ricche e noi operai sprofonderemo nella miseria
La terza guerra mondiale è iniziata
Un lettore
dal fatto quotidiano
Funzionerà? Dopo l’annuncio di Mario Draghi sul maxi-piano di acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, questa è la domanda obbligata. La risposta giusta, ovviamente, non c’è. Per averla bisognerà attendere almeno l’estate, quando il “bazooka” del presidente della Bce avrà iniziato già da qualche mese a inondare di liquidità i Paesi dell’Eurozona e si vedranno – o meno – i primi effetti sull’economia reale: discesa deitassi di interesse, deprezzamento dell’euro (e conseguente aumento delle esportazioni), risalita dell’inflazione, crescita deiconsumi. Ma economisti e analisti, pur apprezzando le dimensioni del programma presentato da Draghi, hanno diversi dubbi sul fatto che il “motore” dell’area della moneta unica sia pronto a ripartire in quarta e che quindi il “quantitative easing” (allentamento quantitativo) in salsa europea possa avere lo stesso successo di quello messo in campo dalla Federal Reserve statunitense tra il 2009 e il 2014.
Ad alimentare il pessimismo è innanzitutto il fatto che alcuni dei canali di trasmissione della politica monetaria alla vita reale delle persone, delle aziende e degli Stati potrebbero rivelarsi “ostruiti”. “In Europa, e in Italia in particolare, il sistema economico è molto “bancocentrico“: le imprese si finanziano soprattutto ricorrendo al credito bancario, mentre fanno molto meno ricorso all’emissione di azioni e obbligazioni rispetto a quanto avvenga negli Stati Uniti”, spiega Angelo Baglioni, docente di Economia all’università Cattolica. “Di conseguenza il calo dei tassi sui bond comporterà per le nostre aziende meno vantaggi”. L’allentamento quantitativo ha tra gli effetti sperati anche una maggiore facilità ad ottenere prestiti, ma questo dipende in gran parte dalla volontà degli istituti di credito.
In più, secondo Baglioni, anche la cinghia di trasmissione che passa attraverso un aumento dei consumi privati e degli investimenti potrebbe rivelarsi “arrugginita”. Perché le famiglie europee tendono storicamente arisparmiare più di quelle americane. Di conseguenza, anche se per effetto dell’aumento del valore delle case e delle attività finanziarie si ritroveranno più ricche non è detto che inizino a comportarsi dacicale contribuendo a rimettere in moto l’economia. Molto dipenderà dal miglioramento o meno delle loro aspettative sul futuro. E dall’andamento del mercato del lavoro.
Pesa, poi, il ritardo con cui la decisione è stata presa: il lungo braccio di ferro con la Germania e con gli altri Paesi del Nord Europa, riluttanti all’idea che Francoforte si sobbarcasse il rischio di subire perdite in caso di default degli Stati meno “virtuosi”, ha fatto perdere mesi preziosi durante i quali l’inflazione è scesa sottozero. Così come le aspettative sull’andamento futuro dei prezzi, che spesso risultano addirittura più importanti del loro livello attuale. E, alla fine, Draghi ha dovuto accettare il compromesso di lasciare sul groppone delle banche centrali nazionali l’80% di quei rischi. “Una concessione ai falchi“, l’ha definita Donato Masciandaro, ordinario di Economia politica all’università Bocconi. Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, ritiene che il presidente della Bce avrebbe preferito optare per la centralizzazione dei rischi: “La stessa linea espressa più volte fa dalgovernatore di Bankitalia Vincenzo Visco, secondo il quale scaricare i rischi sui singoli Paesi equivale a dare il via a una nuova frammentazione finanziaria dell’Eurozona”.
Il pericolo, dice De Nardis a ilfattoquotidiano.it, è che questa concessione a Berlino possa limitare l’efficacia dell’operazione: “Può essere che gli spread si riducano meno di quanto sperato, perché i mercati leggeranno questa decisione comeun’incrinatura nella politica monetaria comune”. Tuttavia, il punto interrogativo vero secondo De Nardis è un altro: “Questo piano era indispensabile, ma non è detto che ora sia sufficiente. La situazione dell’Eurozona si è molto deteriorata e siamo in quella che si definisce “trappola di liquidità”: tassi bassi che però non bastano per stimolare investimenti e consumi. Per ripartire servono, oltre alla politica monetaria, altre misure di sostegno alla crescita. A partire da politiche fiscali più espansive, che però i Paesi che avrebbero potuto – vedi la Germania – non hanno voluto fino adesso mettere in atto. Mentre altri non hanno potuto a causa dei vincoli europei. Da questo punto di vista le recenti linee guida dellaCommissione sulla flessibilità sono un piccolo passo avanti, ma è ancora troppo poco”.
Ciliegina – avvelenata – sulla torta, la forte avversione al rischio dei risparmiatori europei. Restii a investire i risparmi in azioni o altri strumenti finanziari redditizi ma rischiosi. E molto più propensi a comprare titoli di Stato, anche ora che non rendono quasi nulla. Una caratteristica che non contribuisce certo a far ripartire il mercato.
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