Redazione di Operai Contro,
a Taranto si sta compiendo un’altra infamia contro gli operai.
Basta ci hanno ricattato con il lavoro, ma questo lavoro è nostro nemico
Basta con il lavoro salariato
Basta con i padroni
Padroni e politici sono degli assassini
Un operaio dell’ILVA
Articolo della Gazzetta
di MIMMO MAZZA
TARANTO – Potrebbe arrivare entro la fine di aprile l’autorizzazione del ministero per lo Sviluppo Economico chiesta dai commissari straordinari dell’Ilva Gnudi-Carruba-Laghi per tentare di patteggiare la posizione dell’azienda, imputata nel processo «Ambiente svenduto» ai sensi della legge 231/2001 che punisce la responsabilità amministrativa delle imprese.
Gli avvocati Angelo Loreto e Filippo Sgubbi, legali dell’Ilva, stanno limando la proposta di applicazione della pena che sarà presentata dalla Procura della repubblica per il necessario vaglio prima di approdare, in caso di assenso dei pubblici ministeri, all’esame del giudice per l’udienza preliminare Vilma Gilli, nella seconda metà di maggio quando il magistrato dovrà decidere anche sulle richieste di rinvio a giudzio e sulle posizioni dei 5 imputati (Primerano-Bardaro-Gerardo-Perrini-Nicastro) giudicati con il rito abbreviato. La proposta degli avvocati Loreto-Sgubbi non dovrebbe discostarsi da quella anticipata dalla Gazzetta l’altro giorno. Ovvero, una multa di 3 milioni di euro (in moneta fallimentare, trattandosi comunque di una società in procedura concorsuale e dunque di soldi che dovranno essere recuperati tramite l’insinuazione nella massa passiva), una misura interdittiva di otto mesi tramite la nomina per tale periodo degli attuali commissari quali commissari giudiziali e infine la confisca di 2 miliardi di euro quale profitto del reato. In questo caso si tratterebbe della somma necessaria ad attuare il piano ambientale varato dal Governo e dunque in quanto tale non sottoposta materialmente a confisca ma destinata proprio all’attuazione del piano ambientale così come previsto dall’ultima legge salva Ilva. Quei due miliardi saranno costituiti da obbligazioni garantite dallo Stato e, se dovessero realmente arrivare, dai soldi sequestrati a Milano alla famiglia Riva.
La richiesta di patteggiamento ha naturalmente spiazzato un po’ tutti perché si offre a diverse interpretazioni, nella forma e nella sostanza.
La forma riguarda essenzialmente l’ammissione di colpa dell’Ilva. Va premesso che secondo il codice di procedura penale, la sentenza con la quale viene applicata le pena è equiparata a una pronuncia di condanna pur non avendone le caratteristiche proprie, «stante la carenza di quella piena valutazione dei fatti e delle prove che costituisce nel giudizio ordinario la premessa necessaria per l’applicazione della pena». In sostanza l’istituto del patteggiamento (o dell’applicazione della pena che dir si voglia) si fonda su un incontro tra convenienze: da una parte l’interesse pubblico alla sollecita amministrazione della giustizia e alla diminuzione dei carichi pendenti e, dall’altra, l’interesse del privato ad un esito concordato del processo. La sentenza di patteggiamento non contiene un approfondito accertamento della responsabilità dell’imputato e pertanto non può ha le caratteristiche proprie di una sentenza di condanna, stante la carenza di quella piena valutazione dei fatti e delle prove che costituisce nel giudizio ordinario, la premessa necessaria per l’applicazione della pena. Dunque, chi ha sostenuto in questi giorni che l’Ilva patteggiando ammette le sue responsabilità lo ha detto in maniera politica: perché intanto è l’Ilva di oggi, amministrata da tre commissari di nomina governativa, che chiede l’applicazione della pena e non quella del periodo delle indagini preliminari, di proprietà e diretta da una parte consistente degli imputati di «Ambiente svenduto»; perché non sarà in punta di diritto un vero e definitivo accertamento delle responsabilità dell’azienda.
Nella sostanza, invece, il discorso si fa più complicato. Per la sanzione pecunaria, tra patteggiamento e condanna alla fine del processo cambia poco, in quanto la sanzione massima è pari a 4,5 milioni di euro mentre quella proposta è pari a 3: in un caso o nell’altro, si tratterà comunque di un credito privilegiato da riscuotere da parte del fondo unico di giustizia nella procedura concorsuale apertasi a Milano a seguito della dichiarazione di insolvenza. Il patteggiamento, invece, piace ai commissari per schivare la prevista sanzione interdittiva trasformandola in 8 mesi di commissariamento giudiziale affidato sempre al trio Gnudi-Laghi-Carrubba trattandosi di una azienda che, come previsto dalla legge, non può sospendere l’attività perché l’interruzione a causa delle dimensioni e delle condizioni economiche del territorio, provocherebbe ripercussioni sull’occupazione. Il giudice sotto questo profilo, con la sentenza dovrebbe disporre la prosecuzione dell’attività dell’Ilva tramite i commissari giudiziali, indicandone i compiti e i poteri con particolare riferimento alla specifica area in cui è stato commesso l’illecito. I commissari dovranno obbligatoriamente adottare modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quelli verificatisi. E qui entra in ballo la sanzione più pesante prevista dalla legge 231/2001, ovvero la confisca. L’articolo 19 stabilisce che nei confronti della società è sempre disposta, con sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato. I legali dell’Ilva prendono a riferimento il piano ambientale, che prevede una spesa di 2 miliardi di euro per mettere a norma il siderurgico, indicando lo stesso piano ambientale quale modello organizzativo per evitare la reiterazione dei reati contestati dalla Procura di Taranto e l’importo per farvi fronte quale profitto conseguito dall’azienda. Solo che in questo caso il profitto non sarebbe confiscato ma utilizzato per, come impone l’ultima legge salva Ilva, eseguire i lavori previsti dal piano ambientale e dunque poi avere via libera per cedere l’azienda perché con la ratifica del patteggiamento finisce l’azione penale e cade dunque anche il sequestro dell’area a caldo.
Il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco nel maggio del 2013, accogliendo la richiesta della Procura, dispose il sequestro di beni mobili e immobili nei confronti delle società della famiglia Riva per 8,1 miliardi di euro, stimando, grazie al lavoro svolto dai custodi giudiziari, in quella cifra il profitto accumulato non investendo nell’ambientalizzazione dell’Ilva ma quel provvedimento fu poi annullato senza rinvio dalla Cassazione. La richiesta di applicazione della pena degli avvocati Loreto e Sgubbi sembra riconoscere la fondatezza, almeno nella forma se non nella cifra, di quel ragionamento, cioè che i soldi non spesi per mettere a norma l’Ilva costituiscono il profitto del reato e dunque da un lato costituiscono un riconoscimento al lavoro svolto da gip e Procura e dall’altro aprono un nuovo fronte sulla capogruppo Riva Fire visto che l’Ilva è sempre stata una società finanziariamente priva di dote e autonomia propria rispetto alla capogruppo.
Senza patteggiamento, insomma, le sanzioni applicabili all’Ilva sarebbero probabilmente più pesanti ma dalla dubbia applicabilità – vista l’amministrazione straordinaria in corso – e dal sicuro effetto dilatatorio rispetto alla possibilità di cedere il siderurgico una volta risanato. Certo, non c’è un solo centesimo destinato al risarcimento del danno, vista l’esclusione, sancita proprio dal giudice Gilli, delle parti civili che anzi contavano di riprovarci in avvio di dibattimento, proponendo nuova istanza ai giudici di primo grado. Ma è per questo che il patteggiamento è un incontro tra convenienze.
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