di Gabriele Polo
Alla Franco Tosi i dipendenti della storica azienda di turbine legnanesi hanno bocciato l’ipotesi di accordo che condizionava il lavoro alla rinuncia ai diritti, passando al nuovo regime che con il Jobs act prevede la fine dell’articolo 18: 122 no, 97 sì e 1 scheda bianca, questo il risultato. Ben 126 gli astenuti, un altro dato che conferma la distanza dei lavoratori da una soluzione cui si era dissociata la maggioranza delle Rsu, ma sottoscritta da Fim e Uilm – una sorta di ultimatum imposto dal gruppo Presezzi, l’acquirente. L’ipotesi d’accordo conteneva anche altri “piccoli” problemi, lasciando molti dubbi sul futuro della fabbrica, da un piano industriale che non precisava la natura e la destinazione degli investimenti alla mancanza di garanzie sul ruolo strategico della fabbrica di Legnano, fino alle modalità d’applicazione degli ammortizzatori sociali e degli “scivoli” verso la pensione. Ma il punto su cui si è concentrato il no dei lavoratori – fino a rischiare la mobilità già annunciata dal curatore fallimenatre – è stato proprio l’applicazione di quella parte del Jobs act che avrebbe previsto per loro il passaggio al regime di “tutele crescenti”, cioè la cancellazione dei diritti acquisiti, primo fra tutti l’articolo 18. Ora – sottolinea Mirco Rota, segretario generale della Fiom Lombardia – “dopo un referendumn chiesto da Fim e Uilm e non da noi, bisogna rispettare la volontà dei lavoratori e riprendere la trattativa con l’obiettivo di migliorare l’ipotesi d’accordo”. Ci sono 60 giorni per riaprire il discorso prima che le procedure di mobilità si concretizzino nella perdita dei posti di lavoro. E la strada per una nuova soluzione sembra parecchio tortuosa, considerato l’atteggiamento del gruppo acquirente cha ha dichiarato di “considerare chiusa la partita”; e con quella legge – il Jobs Act – che pende come una spada di Damocle su tutte le trattative per le crisi industriali, soffiando sul collo dei lavoratori il ricatto dello scambio tra diritti e occupazione.
Trecento chilometri più a est, cambiano dimensioni, storia e contesto, ma la sostanza non muta di molto. Qualche giorno fa, alla vigilia del 70° anniversario della Liberazione, tre lavoratori della Bardini – piccola industria metallurgica di Nervesa, 37 addetti, provincia di Treviso – sono stati allontanati dalla fabbrica e preavvisati di licenziamento. Tra loro un delegato della Fiom. Il motivo del provvedimento aziendale lo si è potuto leggere solo qualche giorno dopo nella lettera recapitata ai tre: “Contrazione dei margini di ricavo…. esternalizzazione delle lavorazioni…. riorganizzazione dell’impresa… soppressione del posto di lavoro ricoperto”; quest’ultima sarebbe – a detta dell’azienda – il “giustificato motivo oggettivo” del licenziamento. Il lunedì successivo metà dei dipendenti della Bardini hanno aderito allo sciopero di protesta contro i provvedimenti e di solidarietà con i licenziati, proclamato dalla Fiom: una percentuale importante per una fabbrica non abituata al conflitto. Ora i metalmeccanici della Cgil – dopo aver chiesto anche il sostegno e la mobilitazione della Camera del lavoro di Treviso – annunciano che prenderanno tutte le iniziative necessarie, anche di carattere legale, per opporsi al licenziamento dei tre operai, che per il delegato potrebbe anche configurare l’accusa di comportamento antisindacale a carico dell’azienda. Responsabile di un comportamento che, anche se non diretta conseguenza dell’abrogazione dell’articolo 18, risente fortemente del “clima Jobs act”. Secondo Luca Trevisan – segretario generale della Fiom Veneto – “questi provvedimenti sono inaccettabili, risultano chiaramente pretestuosi e discriminatori, dimostrano quanto pericoloso sia l’avallo alla libertà di licenziare fornito alle imprese da leggi come il Jobs Act”.
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