STORIE DI VITA

UN’ADOLESCENZA (LA MIA) DA BRACCIANTE, NEI CAMPI ASSOLATI DELLA PUGLIA. Dopo aver raccontato le vicende di mia sorella, voglio parlare delle MIE esperienze di bracciante, contestualizzando il periodo storico in cui ho vissuto queste esperienze lavorative. Ho voluto mettere ordine a ricordi di circa 40 fa, perché si sta affermando la tendenza a mettere troppo in risalto gli aspetti negativi del lavoro dei braccianti: il caporalato, la violenza e i ricatti delle braccianti, e non la brutalità intrinseca del lavoro salariato. Sia chiaro, parlare delle condizioni di lavoro è sempre utile, ma il messaggio che si percepisce, tra le […]
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UN’ADOLESCENZA (LA MIA) DA BRACCIANTE, NEI CAMPI ASSOLATI DELLA PUGLIA.

Dopo aver raccontato le vicende di mia sorella, voglio parlare delle MIE esperienze di bracciante, contestualizzando il periodo storico in cui ho vissuto queste esperienze lavorative. Ho voluto mettere ordine a ricordi di circa 40 fa, perché si sta affermando la tendenza a mettere troppo in risalto gli aspetti negativi del lavoro dei braccianti: il caporalato, la violenza e i ricatti delle braccianti, e non la brutalità intrinseca del lavoro salariato. Sia chiaro, parlare delle condizioni di lavoro è sempre utile, ma il messaggio che si percepisce, tra le righe, è questo: bisogna eliminare il caporalato, colpire con durezza chi ricatta anche sessualmente le braccianti, ma poi le cose tornano a posto. Nessuna critica al lavoro salariato emerge da questi interventi. Per questo mi sono deciso di raccontare la mia adolescenza da bracciante, tra i 12 e i 15 anni, nei primi anni Settanta in Puglia. Chiaramente le considerazioni e le riflessioni non sono quelle dell’adolescente di allora, sicuramente, però, quel periodo ha fortemente influenzato la mia maturazione politica attuale.

PREMESSA: IL CONTESTO STORICO E SOCIO- ECONOMICO.

Nei primi anni Settanta, nel Sud Est barese, dove io sono nato, la riforma agraria si era pienamente compiuta: i latifondi erano stati totalmente smembrati, i contadini avevano avuto i terreni, o l’avevano comprati, ed erano andati a vivere in campagna per coltivare le terre. Tutti i villaggi agricoli che si incontrano, senza soluzione di continuità, nei territori dei comuni del sud barese, si sono insediati dopo la Riforma Agraria degli anni Cinquanta, ma si sono consolidati negli anni Settanta. In un’economia di mercato, però, la possibilità di vivere del proprio lavoro è un’illusione, la maggior parte dei contadini della zona aveva, per sopravvivere, la necessità di integrare il reddito percepito dalla coltivazione dei campi, con altre entrate da investire anche nei loro terreni. Migliaia di contadini, abituati al duro lavoro di campi, si rendevano così disponibili al lavoro salariato come braccianti. Nello stesso tempo vi erano tanti commercianti, che si erano arricchiti con contrabbandi e commerci di vario tipo, con tante capitali da investire, soprattutto nel territorio di Monopoli e Conversano. Negli anni settanta i “magazzini”( così venivano chiamate le imprese esportatrici di prodotti agricoli) spuntavano come funghi e gestivano la commercializzazione delle produzioni agricole di buona parte della Puglia, fino al Golfo di Taranto. Intere famiglie di contadini, soprattutto in estate, diventavano braccianti, al soldo di questi commercianti –imprenditori che compravano le produzioni agricole sulle piante, le facevano raccogliere e le vendevano in tutt’Italia e all’estero. La congiuntura, tra l’altro, era favorevole, la ripresa economica richiedeva derrate alimentari, da consumo fresco o per la trasformazione.

Quasi tutta la mia famiglia, me compreso, si ritrovò, pertanto, per necessità, a fare i braccianti alle dipendenze dei personaggi di cui sopra, gente che voleva ottenere il massimo profitto dal nostro lavoro. Così anch’io iniziai a lavorare come bracciante nelle estati dei primi anni Settanta, avevo finito la Va elementare ed avevo 12 anni! Ma non ero il solo, c’erano tanti minori che accompagnavano la propria famiglia nei vari “magazzini” della zona, tutti ragazzini che, come me, avevano iniziato a lavorare nei propri campi dall’età di 7 anni.

L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO.

Il lavoro di raccolta e di commercializzazione dei prodotti agricoli si svolgeva in due fasi: la raccolta in campagna e la lavorazione nei locali della ditta, dove venivano puliti selezionati e imballati. Gli ortaggi destinati all’industria, invece, venivano raccolti direttamente in campagna e caricati nei Tir, destinati soprattutto alle industrie trasformatrici del Nord Italia. Vi era una netta distinzione tra il lavoro delle donne e quello degli uomini: la frutta, come l’uva da tavola, era raccolta dagli uomini nei campi, mentre gli ortaggi da industria venivano raccolti dalle donne e gli uomini li trasportavano in casse che venivano scaricate nei cassoni dei Tir. Tante volte si è parlato dell’attuale condizione dei braccianti, nulla di paragonabile con la durezza del lavoro nei campi di 40 anni fa! Allora non c’era nessuna meccanizzazione del trasporto dei prodotti agricoli nei campi, tutto veniva trasportato a spalle in cassette da 25 – 30 chili. Quando questo avveniva sotto un sole cocente e con una temperatura prossima ai 40° era terribile, da perdere il fiato! La paga giornaliera era nettamente differenziata: le donne percepivano la metà degli uomini, i quali, però, facevano un lavoro molto più faticoso.(prima parte)

UN’ADOLESCENZA (LA MIA) DA BRACCIANTE, NEI CAMPI ASSOLATI DELLA PUGLIA, SECONDA PARTE.

Quando iniziai a lavorare fui destinato ai “magazzini”, come supporto al lavoro delle donne e percepivo la loro stessa paga, tremila lire al giorno, mentre gli uomini guadagnavano seimila lire al giorno, una miseria anche per quei tempi. Nei magazzini c’era un’organizzazione del lavoro quasi simile ad un fabbrica: le operaie lavoravano in serie ed ogni gruppo di esse aveva una caposquadra. Al vertice di tutte vi era la “capa”, una lavoratrice fidata del padrone che tutto controllava e portava il ritmo. Per tutto il giorno ripeteva: in fretta badiamo a quello che facciamo, il lavoro veloce e ben fatto, un’ossessione.

IL RUOLO DEI SINDACATI.

I sindacati dei braccianti avevano cavalcato l’onda delle proteste spontanee degli anni Cinquanta, si era ottenuto il contratto nazionale che rimaneva, però, sulla carta. Non essere iscritti al sindacato era la condizione minima per lavorare. Di tanto in tanto dei delegati sindacali facevano comparsa nei magazzini per parlare con i lavoratori. Quando questo doveva avvenire (come facevano i padroni a sapere in anticipo della venuta dei sindacati?), la “capa” riuniva i lavoratori che venivano “istruiti” e minacciati: “Mi raccomando, oggi verranno i sindacati, chi parla è fuori! Dovete dire che viene rispettato il contratto, che fate le ore previste, vi pagano lo straordinario e la paga giornaliera e soddisfacente.” Chiaramente erano tutte balle, la giornata lavorativa era “normalmente” 10 – 11 ore, ma in alcune occasioni abbiamo fatto 14 ore di lavoro al giorno! All’ispezione sindacale tutto avveniva secondo copione, nessuno diceva niente, anche quando la capa, o il padrone venivano allontanati. Io seguivo tutto, nascosto da qualche parte, ero un minore e non avrei potuto neanche lavorare. Dietro le quinte e non riuscivo a capire a capire il comportamento dei lavoratori, ma mi veniva anche la rabbia per la nostra condizione.

LE PROTESTE SPONTANEE

Di tanto in tanto avvenivano delle proteste spontanee, come atto di ribellione a soprusi o abusi. Mia madre, che era caposquadra di qualche decina di donne, in un’occasione capeggiò una di queste proteste. Nel magazzino dove eravamo impiegati il padrone aveva deciso di togliere la pausa di venti minuti di mezza mattinata, intorno alle dieci. Mia madre non ci sta e si rivolge al padrone per ripristinare la consuetudine, quasi una regola nei magazzini. Il padrone, però gli dice: “Quale regola vai cercando, le regole le stabilisco io”. Allora mia madre richiama le “sue” donne, me compreso, per fare la pausa mattutina. Così mentre una quindicina di lavoratrici fanno pausa, il resto, capeggiati dalla capa continuava a lavorare. Questa situazione si è ripetuta per diversi giorni, alla fine mia madre è stata convocata dal padrone che la rimprovera e la minaccia: “Insomma sei comunista o cosa? Se non rientrate a lavorare vi licenzio” . “Va bene – risponde mia madre ma mi porto via delle bravi lavoratrici”. Alla fine mia madre l’ebbe vinta e la pausa fu ripristinata.

IL LAVORO DEI CAMPI.

Dopo un primo periodo di lavoro nei magazzini, il padrone mi manda a lavorare con gli uomini, ma con la paga delle donne, un bell’affare per lui! Poiché non potevo tagliare l’uva mi avevano incaricato di distribuire le casse vuote ai raccoglitori. Poi, visto che fisicamente ce la facevo, mi fanno trasportare le casse che man mano venivano riempite, dal peso di 30 – 33 chili! Il padrone mi diceva: “ Tu devi fare come il ciuccio della montagna, devi andare carico e devi ritornare carico”. Una volta il padrone comprò un tendone di trecento metri lungo, bisognava trasportare le casse per tutta la lunghezza del tendone. Nell’arco della giornata si facevano fino a venti viaggi al giorno, sei chilometri trasportando casse di circa trenta chili di peso! Avevo tredici anni! Tutti i lavoratori non ne potevano più, si ribellavano ma il padrone ci minaccia di licenziamento, allora si ci mettiamo la coda tra le gambe e riprendiamo a lavorare. Fu un periodo terribile, si riesce ad immaginare cosa significhi trasportare una cassa di trenta chili per trecento metri sotto il sole?

AL PEGGIO NON C’E’ MAI FINE, LA RACCOLTA DEI PEPERONI.

Se la raccolta dell’uva da tavola era pesante, quella dei peperoni, melenzane da industria era massacrante! Tutto il lavoro si svolgeva in campagna in una delle are più calde d’Italia. Nell’ultimo anno che ho fatto il bracciante mi sono trovato in quest’inferno, a trasportare casse di peperoni sotto il sole infuocato, per 8 -10 ore di lavoro. A me continuavano a darmi la paga della donna ma mi facevano trasportare le casse come gli uomini, mentre le donne raccoglievano i peperoni. Una volta non erano venuti a lavorare dei braccianti, allora il padrone pretese che rispettassimo le consegne, bisognava comunque completare il carico, era necessario accelerare il trasporto in spalla, salire una scala di due metri e mezzo e scaricare nel cassone del camion. Un’intera giornata a trasportare casse senza interruzione, 60 – 70 quintali a testa, per quattro mila lire al giorno! Una donna che raccoglieva i peperoni con mia madre gli disse: “Ma non hanno pena di far lavorare così un ragazzino”, mia madre non ebbe il coraggio di dire che ero io, suo figlio.

Ogni anno migliaia di tonnellate di ortaggi da industria venivano raccolte sotto il sole infuocato . Tutta merce che finiva nelle industrie del Nord Italia! Dal plus lavoro nostro le borghesie del nord si sono arricchite, bisognerebbe spiegarlo ai leghisti. Il plus valore può sembrare un’astrazione, ma se tu ti rompi la schiena, ed hai a malapena il necessario per vivere, mentre chi ti da ordini giuda una macchina di lusso, diventa una cosa concreta. Per questo mi sono deciso a contribuire per la costruzione del Partito Operaio, anche per quel ragazzino che trasportava casse di peperoni sotto il sole infuocato quale io ero.

Infine una considerazione, in quei tempi non esisteva il caporale, il padrone pagava le spese di trasporto al lavoratore che metteva la macchina; infine non sono mai venuto a conoscenza di abuso o ricatto sessuale, ma lo sfruttamento rimane uguale.

PIERO DEMARCO.

PIERO DEMARCO

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1 Comment

  1. campagnadiprimavera

    Il signor Giuliano Poletti, dirigente d’azienda,politico “indipendente”,ministro del lavoro nel governo Renzi ,ex presidente della Lega Coop, ex comunista nato in una famiglia di contadini,avrebbe dovuto imparare molto da storie come quella del compagno Piero.
    La storia recente di questo disastrato paese lo colloca invece dalla parte dei padroni: Una vita buttata, ma in fondo sono solo fatti suoi.