dalla gazzetta del mezzogiorno
di GIANLUIGI DE VITO
BARI – «Domeniche al 30%? No grazie, la mamma resta a casa». La T Shirt della protesta dice tutto della rivolta, «atto terzo». Meno folklore, più rabbia, stavolta. Poco prima dell’ora di pranzo, le tute gialloblù di Mungivacca fanno volare i palloncini dei desideri: è il modo per legare il disagio di Bari al cielo unico d’Italia visto che lo sciopero va in onda in tutti i negozi Ikea, dal Nord alla Sicilia. Alle 12,35 il corteo silenzioso sfila, per la seconda volta, all’interno del negozio. Non bastano palloncini, bandiere, fischietti e l’arcipelago di scritte al cianuro per spiegare che i dipendenti non vogliono e non possono accettare la riduzione delle integrazioni economiche. No, bisogna portare la protesta al massimo della visibilità per far capire ai clienti le ragioni profonde della ribellione: difendere quelle integrazioni significa difendere la polpa di un salario.
Dentro, la sfilata degli indignati. Fuori, una guerra di parole a colpi di comunicati. I vertici aziendali dicono che lo sciopero nazionale di ieri sia stato un fallimento, la riprova è stata l’apertura di tutti negozi. I sindacati replicano senza troppo affanno che i numeri sono dalla loro: ieri, nel terzo sciopero dopo quello dell’11 giugno, il primo e storico, per Bari, visto che gli ikeisti di Puglia non erano mai arrivati all’astensione dal lavoro, e dopo quello di sabato 4 luglio, I’adesione è stata oltre il 70%: alle 19, il negozio ha dovuto chiudere in anticipo. Ed era sabato. Un mannaia per chi vive di shopping. E per l’intera giornata i disservizi interni procurati dai ranghi ridottissimi sono stati evidenti: dall’area giochi per bambini, chiusa da subito, al ristorante sguarnito, al servizio finanziamenti post vendita sospeso.
Passerà alla storia il tris di protesta. Nessuno aveva messo in conto la rottura nelle trattative del 3 luglio a Bologna, rottura che ha scatenato appunto gli scioperi del 4 e di ieri. L’azienda ha sospeso l’efficacia del contratto integrativo perché lamenta un disavanzo di 53 milioni di euro, una ferita tale da non consentire più maggiorazioni per il lavoro domenicale, quello festivo, il premio aziendale fisso e quello legato ai risultati di ogni singolo negozio nelle proporzioni pattuite nel 2011. Ikea vuole razionalizzare e rendere equo l’integrativo, e col risparmio sul costo del lavoro finanziare l’apertura di altri punti vendita che significano altri posti di lavoro e soprattutto sostenibilità nel futuro. Ecco perché attacca i sindacati definendoli «non interessati» al «quadro di equità e sostenibilità».
La risposta dei lavoratori è diretta: quelle riduzioni sono sostanziali, accettarle significa vedersi lo stipendio drasticamente ridotto, dai 1.500 ai 3mila euro all’anno, dai 125 ai 250 euro al mese. Che per un salario medio che oscilla dai 700 ai 1.300 euro sono una condanna, considerando che a fronte di questi guadagni bisogna garantire flessibilità e lavoro nei weekend.
Ecco perché i sindacati puntano il dito anche sulla politica, accusata di ignorare il settore della grande distribuzione. Giuseppe Zimmari, segretario regionale della Uiltc Uil: «Ritengo che la vertenza Ikea sia l’apice di un processo di destrutturazione della contrattazione di secondo livello che sta trovando da parte dei lavoratori una coscienza sindacale giusta per affrontare la sfida che ha lanciato l’azienda a difesa dei propri diritti contrattuali e retributivi».
Barbara Neglia, segretaria provinciale della Filcam Cgil: «Un anno e mezzo fa abbiamo iniziato con la disdetta del contratto integrativo Metro, poi abbiamo avuto problemi con il rinnovo Coop, qualche giorno fa con Auchan e oggi con Ikea. Ma la politica locale si rende conto che il commercio e la grande distribuzione hanno bisogno di attenzione, hanno bisogno di controllo e presidio? Dalle licenze ai permessi e allo spacchettamento stesso, qualcuno dovrà pur darci delle risposte. Noi come sindacato richiediamo subito gli stati generali del commercio barese».
Situazione insostenibile anche per il prossimo segretario regionale della Fisascat Cisl, Giuseppe Boccuzzi: «Ogni giorno lottiamo per conservare quel poco di lavoro che richiede il settore del commercio, con redditi dei lavoratori falcidiati dall’arretramento delle condizioni contrattuali nella grande distribuzione e col lavoro mal pagato e mal tutelato dove è assente il controllo del sindacato. In tutto questo, l’assenza di una politica locale e regionale di sostegno e di sviluppo del settore commerciale crea un diffuso senso di sfiducia tra le migliaia di famiglie dei lavoratori di questo settore, ormai la gran parte precipitate in una vera e propria trappola della povertà».
Insomma, quella di Ikea è solo l’ultimo degli incendi da spegnere in una regione di ceneri.
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