CONFINDUSTRIA PREME PER L’IVASIONE DELLA LIBIA

Redazione, L’ associazione dei padroni italiani preme un altro po’ l’acceleratore per invadere apertamente la Libia. Dal 1911 questa è la quinta guerra alla libia dell’imperialismo italiano. L’editoriale pubblicato sul quotidiano della Confindustria Il Sole 24 ORE è sufficientemente esplicito: la situazione economica costringe a conquistare nuovi mercati. La scusa utilizzata è come al solito quella dell’immigrazione e del pericolo dell’ISIS. L’attacco alla sovrastruttura europea è un atto dovuto per legittimare le future gesta belliche dell’Italia, che all’interno del contesto unico monetario agirà insieme alla sola Francia (gli altri compagni di guerra saranno inglesi ed americani). La conclusione dell’articolo […]
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Redazione,

L’ associazione dei padroni italiani preme un altro po’ l’acceleratore per invadere apertamente la Libia. Dal 1911 questa è la quinta guerra alla libia dell’imperialismo italiano. L’editoriale pubblicato sul quotidiano della Confindustria Il Sole 24 ORE è sufficientemente esplicito: la situazione economica costringe a conquistare nuovi mercati. La scusa utilizzata è come al solito quella dell’immigrazione e del pericolo dell’ISIS. L’attacco alla sovrastruttura europea è un atto dovuto per legittimare le future gesta belliche dell’Italia, che all’interno del contesto unico monetario agirà insieme alla sola Francia (gli altri compagni di guerra saranno inglesi ed americani).
La conclusione dell’articolo è quanto mai chiara sull’immediato futuro:

“Nulla quindi di scritto sulle tavole immodificabili delle leggi. Ma un quadro di riferimento complesso, che lascia spazio e legittimità a interpretazioni “espansive” verso cui dovrebbe portare la logica economica. Ma ecco che torna il metodo. Perché se la decisione alla fine sarà politica, è bene che l’Italia costruisca con accortezza il quadro di alleanze e di consenso necessario a convincere gli alleati della razionalità delle proprie istanze. Alzare la voce può servire, ma poi bisogna saper cambiare fase. La posta in gioco è alta. E l’Italia ha dalla sua molte buone ragioni.”

 

PIU’ CHIARO DI COSI’. Saluti, M-L

È possibile che una contrapposizione con la Commissione europea, in mancanza di alleati affidabili, possa non essere efficace ai fini dell’obiettivo. Ma sulla questione della flessibilità di bilancio l’Italia, e il governo italiano, hanno ragione da vendere. Mai come in questo caso è quindi utile distinguere metodo e merito. E se sul primo è legittimo condividere qualche dubbio, sul secondo va detto con chiarezza che solo una irragionevole miopia, se non peggio, può portare a respingere le motivate richieste di flessibilità da parte italiana.

A cominciare dalla sterilizzazione, ai fini del Patto di stabilità, delle spese straordinarie per l’immigrazione. La Commissione europea ha ribadito lunedì scorso che i contributi per la Turchia non saranno conteggiati nel deficit, ma non ha fatto passi avanti sulle spese sostenute dall’Italia in Italia. Una evidente incongruenza: non si comprende infatti perché quello che vale sul fronte medio-orientale dell’Unione, non debba valere su quello meridionale. A meno di negare che l’afflusso continuo sulle coste italiane di uomini e donne dalla Libia abbia assunto in questi mesi ed anni un carattere straordinario. Poi, però, bisognerebbe fare i conti con i numeri, che parlano chiaro: 42mila arrivi nel 2013, 170mila nel 2014, quasi 150mila fino a metà novembre nel 2015. Se poi qualcuno sostiene che bisogna considerare solo la discontinuità tra gli ultimi due anni, cioè quando l’emergenza si è manifestata nel Nord Europa, è difficile sfuggire alla sensazione di un’applicazione “partigiana” delle regole europee.

Questo per quel che riguarda l’immigrazione. Ma l’importanza, e la ragionevolezza, di una interpretazione espansiva delle regole sulla flessibilità va oltre lo 0,2% di spesa per i migranti e si proietta sulla prossima legge di stabilità. È questa per l’Italia la partita più delicata. La manovra per il 2017 dovrà infatti disinnescare una clausola di salvaguardia per 15 miliardi (aumento dell’Iva) e dovrebbe operare, in base alle regole europee al netto della flessibilità, una correzione sul deficit strutturale dello 0,5%. Un salasso per l’economia italiana di almeno 23 miliardi.

Un rischio di gelata evidente nella situazione di lenta e incertissima ripresa che stiamo attraversando. Sfruttare quindi tutti i margini possibili di flessibilità diventa una priorità. E non riconoscerlo, da parte dell’Europa, sarebbe un non-sense dal punto di vista economico, che non trova fondamento nella lettera delle regole dell’Unione.

Ormai la stragrande maggioranza degli economisti concorda sul fatto che tornare a una crescita stabile e sostenuta è una necessità anche ai fini della tenuta dei conti. Se il Pil non si collocherà nei prossimi anni oltre l’1,5% la stabilità delle finanze pubbliche resterà sempre fragile. Per non parlare della stabilità del settore bancario, che molto difficilmente disinnescherà la mina dei crediti deteriorati senza imprese in grado di generare utili e ricchezza.

È improprio poi sostenere che, essendo tornato positivo il Pil, è tempo di mettere fieno in cascina a colpi di nuovi e forti avanzi primari. Il ritmo di crescita con cui siamo entrati nel nuovo anno è tutt’altro che sostenuto e gli stessi dati sul lavoro, forniti dall’Istat martedì scorso, rivelano una flessione degli occupati nell’ultimo mese dell’anno. Altro che rischi pro-ciclici di una politica di bilancio espansiva: qui c’è tanto ancora da investire in crescita se vogliamo davvero che l’Italia metta alle spalle la sua lunga crisi e conquisti una stabilità, anche finanziaria, che è nell’interesse dell’Europa tutta.

Certo, le regole vanno rispettate. Ma nei documenti ufficiali dell’Unione europea la questione della flessibilità è affrontata senza vincoli stringenti, lasciando ampio margine alle interpretazioni. La Comunicazione della Commissione del 13 gennaio 2015, il testo sacro in materia, non fa riferimento infatti al carattere una tantum o meno delle clausole di flessibilità, né tanto meno a una loro non cumulabilità. Sulla questione è tornato, molto dopo, il 30 novembre, il Comitato economico finanziario della Ue, indicando vincoli più stringenti. Ma si tratta, in questo caso, di un organismo composto da funzionari, delle cui indicazioni l’Ecofin dell’8 dicembre si è limitato a prendere atto.

Nulla quindi di scritto sulle tavole immodificabili delle leggi. Ma un quadro di riferimento complesso, che lascia spazio e legittimità a interpretazioni “espansive” verso cui dovrebbe portare la logica economica. Ma ecco che torna il metodo. Perché se la decisione alla fine sarà politica, è bene che l’Italia costruisca con accortezza il quadro di alleanze e di consenso necessario a convincere gli alleati della razionalità delle proprie istanze. Alzare la voce può servire, ma poi bisogna saper cambiare fase. La posta in gioco è alta. E l’Italia ha dalla sua molte buone ragioni.

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