stampa e TV presentano sempre l’Egitto come il paese della vacanza economica. Dimenticano gli operai e la loro vita da schiavi
Un lettore
dal sole 24 Ore
Più ci si allontana nel tempo dal giorno della sua scomparsa, e più si allontana anche la verità sulla morte di Giulio Regeni. E in maniera quasi ineluttabile, lo sdegno di oggi si trasformerà in disinteresse, indifferenza e forse persino in ostilità. Ma quello che Giulio studiava è lì davanti a noi, non è sparito, ammesso che vogliamo ancora vederlo.
Ogni mattina all’alba, verso le tre e mezza, a Mahalla al-Kubra, nel Delta del Nilo, 400mila abitanti, 60 chilometri a nord del Cairo, si aprono i cancelli della più grande fabbrica tessile dell’Egitto.Ventimila operai, uomini e donne, che hanno tutti i volti del Paese, da quelli barbuti dei salafiti con la fronte segnata dalla preghiera, ai giovani con pantaloni e magliette all’ultima moda. Un orologio con un campanile costruito dai britannici scandisce i turni di una forza lavoro che un tempo era più del doppio di oggi.
Le rivolte egiziane sono cominciate qui, in questa Manchester del Delta, divisa in due dalla ferrovia, dove i sindacati hanno dato vita agli scioperi del 2008 e poi al Movimento Sei aprile fondato su Facebook da Ahmad Maher che il 25 gennaio 2011 si riversò in Piazza Tahrir a chiedere che Mubarak se ne andasse. Ai generali i sindacati non piacciono, ma non sono troppo graditi neppure agli islamisti: nella regione delle fabbriche aveva vinto il “no” alla Costituzione islamica di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani. Da queste parti la maggioranza dei voti nel 2012 era andata al cartello dei partiti socialisti e comunisti, non ai salafiti o al partito di Morsi.
La morte violenta di Giulio Regeni già ci insegna qualche cosa. C’è un Egitto che non si è arreso agli islamisti ma non si vuole arrendere neppure alle derive autoritarie del generale Abdel Fattah al-Sisi. Questo volto dell’Egitto è raccontato benissimo in un libro di Giuseppe Acconcia, inviato del Manifesto, il giornale cui collaborava Regeni. Eppure da noi l’Egitto che viene raccontato quotidianamente sembra essere soltanto quello legato alle notizie degli attentati sul Mar Rosso, importanti per il turismo e la sicurezza nel Sinai, minacciata dai jihadisti, ma c’è anche un altro Egitto che non è lì soltanto per servire un calda vacanza a basso prezzo.
Verrà un giorno in cui sapremo, ma forse ci saremo anche dimenticati di che cosa stiamo parlando e l’indignazione di oggi, l’onore ferito, ci sembrerà qualche cosa di lontano e persino il nome della vittima, che oggi tutti pronunciano per chiedere giustizia, per avere un minuto sotto i riflettori e due righe di un lancio d’agenzia, ci dirà poco o forse nulla.
Il Paese cede sempre alla facili emozioni, al lutto generale ma veloce, agli interrogativi irrinunciabili. Basti pensare a tutte le volte che un soldato italiano è stato ucciso in una missione all’estero, dall’Iraq all’Afghanistan, alla Somalia: improvvisamente il Paese scopre che i soldati muoiono, anche i nostri, che l’Italia non è il Paese più amato del mondo, un’idea che ci rassicura ma non ha nessun riscontro nella realtà di una guerra, di un conflitto. Un fiume di retorica insopportabile si riversa nelle tv e sui giornali, come adesso per altro. Perciò quando chiediamo giustizia dovremmo riflettere: perché mai dovremmo ottenerla visto che questa giustizia è già negata tutti i giorni a milioni di cittadini egiziani? Ma chi si interessa davvero a quanto accade intorno a noi? È sufficiente guardare gli spazi dedicati alla politica estera dai media per accorgersi che riscuotono un interesse limitato e che si preferisce dare altro in pasto all’opinione pubblica.
Nel 2006 e negli anni successivi a Mahalla al-Kubra cominciò una serie importante di scioperi, eppure non ricordo tutto questo interesse a dare conto della rivolta. La Banca Mondiale e il Fondo monetario assegnavano all’Egitto di Mubarak cifre di crescita da capogiro che poi abbiamo visto crollare miseramente. Adesso spuntano esperti di sindacati egiziani che ci spiegano cosa studiava Giulio Regeni. Eppure pochi mesi fa a Roma alla presentazione dell’ottimo libro di Giuseppe Acconcia dove si racconta anche di queste cose non mi pareva di avere intravisto folle oceaniche. Spunta adesso però anche una corrente di opinione diversa che non chiede tanto giustizia ma se la prende con la vittima. Giulio Regeni – si dice – era meglio che restasse a casa, che non andasse a ficcare il naso in questioni che non lo riguardavano. Occuparsi di sindacato e di sindacalisti, con una mentalità e uno stile da occidentali in Paesi come l’Egitto espone al rischio. Cosa che per altro non è una novità. La conclusione è implicita, la sentenza inappellabile: la morte Giulio Regeni – descritto come un ingenuo, un idealista, uno sprovveduto – è andata a cercarsela. Perché il Paese, da qualunque lato lo si guardi, è questo, anzi è soprattutto questo: abbastanza mediocre.
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