Pubblichiamo questo scritto per il dibattito
Robert Reich, professore di politiche pubbliche alla Università Berkeley, è stato segretario del Lavoro Usa nella presidenza Clinton. Non lo si può proprio definire un acerrimo nemico del sistema capitalistico, così come non lo si può dire del Corriere della Sera, che lo intervista il 29 gennaio scorso.
I crolli accumulati da inizio anno su tutte le Borse mondiali, evidentemente, li costringe a rimettere in discussione tutte le balle sciorinate finora sulla ripresa e la fine della crisi.
L’economista americano inizia l’intervista con una secchiata gelida: «Per uscire da questa nuova crisi tutti puntano sull’effetto di traino dell’economia americana, quella che appare più in salute. Ma il nostro sistema è minato dagli squilibri crescenti nella distribuzione del reddito …». Prefigura quindi un rallentamento e poi nuovamente la recessione.
Ma il punto che Reich sostiene non è tanto che si avrà un ulteriore altalenare del pil, in qualche modo ritenuto un male di stagione, un raffreddore. Egli sostiene, invece, che un vero e proprio cancro attanaglia il capitalismo: «Una grave patologia del capitalismo ». La quale – sostiene sempre Reich – sarebbe dovuta alla forte “polarizzazione dei redditi”.
Il ragionamento è semplice, la crisi profonda in Europa, Brasile, Russia, Cina, toglie la possibilità all’economia americana di crescere grazie alle esportazioni, e quindi non resta che affidarsi alla domanda interna, solo che questa non ci può essere se i consumatori americani non hanno sufficiente reddito da spendere. E reddito disponibile a comprare l’enorme massa di merci prodotta non ci sarà mai, se gli stipendi non ci sono o vengono ridotti affinché i profitti delle multinazionali continuino a crescere.
Reich e amici colgono una palese contraddizione del capitalismo, e in questo senso in effetti si tratta di una reale “patologia”: la tendenza, da parte del capitalista, a diminuire il valore del salario, ovvero la parte variabile del capitale rispetto alla parte costante (macchinari e mezzi di produzione in genere) per aumentare il plusvalore, e quindi il suo profitto. Ma questa tendenza è intrinseca al capitalismo stesso, alle leggi che lo spingono a produrre la ricchezza. La distribuzione di questa ricchezza non può che venire di conseguenza, non è avulsa dalla sua produzione come ci vorrebbero far credere gli economisti liberal (di sinistra) cui Reich appartiene.
Vorrebbero una politica dei redditi diversa da quella che le stesse leggi del capitale impone. Vorrebbero avere consumatori “con abbastanza reddito disponibile”, quando è proprio il capitalismo a portare gli operai al limite della sopravvivenza per salvaguardare i margini di profitto senza i quali il capitale smetterebbe di produrre.
Gli economisti alla Robert Reich si avvedono della grande contraddizione del capitalismo, d’altra parte nella crisi si aggrava e diventa palese poiché si generalizza anche agli strati non operai: i redditi provenienti dalla distribuzione di plusvalore operaio svaniscono anch’essi o si contraggono. La massa dei “consumatori” è nella sua genericità più povera e diminuisce numericamente. E tutto ciò “non solo rende i ricchi ancora più ricchi e i poveri più poveri, ma rischia addirittura di portare alla recessione” – riassume il giornalista. Scorgono la contraddizione, dicevamo, ma poi? “Non è questione di giustizia” – avvisa R. Reich, il quale, tuttavia, del furto legalizzato di pluslavoro, da cui parte tutto, non si interessa -, “ma è che dalla crisi così non si esce”. Già, e quindi?
Circa la “patologia del capitalismo” – ci racconta di Reich l’intervistatore – “ha cominciato a battersi per una sua profonda riforma”. Solo che se la “profonda” riforma liberal non mette in discussione la legge della produzione capitalista della ricchezza basata sul profitto, con annesso furto legalizzato di plusvalore operaio, la distribuzione di ricchezza non potrà che essere quella attuale. Con le continue ricadute del sistema nella crisi di sovrapproduzione, annessa al sistema stesso. Ci spiace per i nostri liberal, ma il sistema non è riformabile. Lo si può cambiare da cima a fondo, ma per fare questo non basta scorgere la patologia della sovrapproduzione di merci. Si deve andare alla sua origine, al plusvalore operaio, alla miseria operaia dovuta a un salario equivalente a una infima parte, solo il necessario alla riproduzione della sua forza lavoro, della enorme quantità di valore che ogni operaio produce.
Se si aumenta il salario, diminuisce il plusvalore e quindi il profitto, il capitalismo, che produce fintanto gli sia garantito un determinato margine di profitto, fermerà la produzione. Se si riduce il salario, il plusvalore aumenta e con esso il profitto, ma tutte le merci prodotte non troveranno un “adeguato” compratore-consumatore, la sovrapproduzione si ripresenterà come “patologia” del sistema.
Non c’è verso, l’unica soluzione è quella di un nuovo modo di produzione, la società capitalistica ha fatto il suo tempo, quella degli operai vi deve di necessità subentrare.
R.P:
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