Redazione,
LA VICENDA DELLA RAFFINERIA DI GELA E LA FINE DEI “POLI DI SVILUPPO”.
La crisi della raffineria di Gela è stata per diverso tempo al centro dell’attenzione dei media, grazie anche all’azione degli operai che hanno bloccato le strade principali della zona. Per un po’ di tempo tutti si sono occupati del lavoro degli operai, persino la chiesa, i vescovi, i cardinali si sono preoccupati del lavoro degli operai: le messe e le veglie di preghiere si sono sprecate, insieme agli appelli alla calma e al buon senso, “ per non far precipitare la situazioni” . Nulla di nuovo, coloro che vivono dal plus valore prodotto dagli operai sono preoccupati, ma devono anche svolgere il loro ruolo di pompieri.
Adesso la vicenda Eni è relegata, in modo marginale in verità, sulla stampa siciliana locale perché è bene non assillare la gente con i problemi di lavoro ci sono problemi ben più seri, come le unioni civili, tolgono il sonno agli italiani. Le cose, però non sono risolte, la lotta degli operai di Gela continua, insieme a tante altre vertenze di cui la gente comune viene solo occasionalmente informata. Pochi, penso, conoscono le vicissitudini degli operai di Priolo, in provincia di Siracusa dove è prevista una svendita del ramo chimico della raffineria. Più di mille posti di lavoro sono a rischio. Da quello che trapela dalle edulcorate agenzie informative siciliane, è tutto il settore dell’ industrie di prima trasformazione ad essere in sofferenza.
Non è una cosa da poco conto, si sta sbriciolando il modello di poli di sviluppo, una teoria sposata anche da molti ambienti di “sinistra” che tanti danni hanno prodotto in epoche passate. Secondo questo modello sarebbe bastato istallare dei grandi complessi, industriali magari come interventi statali, in aree depresse per risollevare le sorti dell’economia della zona. Chiaramente le cose stavano diversamente, i poli di sviluppo erano funzionali alla Borghesia dominante, quella del nord Italia, che aveva la necessità di polarizzare la produzione delle materie prime, necessarie per le industrie manifatturiere.
Tra gli anni Sessanta e Settanta i poli industriali sono spuntati come funghi nel meridione e nelle altre aree depresse d’Italia , molto spesso sostenute, direttamente o indirettamente, dallo Stato Italiano, con imprese Statali o Partecipate. In quei tempi erano in molti a vedere l’intervento dello Stato Imprenditore come “Introduzione di elementi di Socialismo nell’economia Capitalistica italiana”, il presidente dell’ENI di allora, Maffei, era considerato quasi un rivoluzionario, un illuminato borghese che si è battuto per lo sviluppo del Sud, ed è per questo che, forse, è stato ucciso.
La Sicilia è, forse, la regione in cui la politica dei poli di sviluppo è stata maggiormente applicata: la sua struttura industriale è fortemente polarizzata, ci sono solo poche aree fortemente industrializzate, soprattutto industrie estrattive e di prima trasformazione, in mezzo c’è il deserto industriale. Nell’Isola, per decenni, si sono prodotte le materie prima di base, soprattutto i derivati del Petrolio, che hanno permesso “il miracolo economico” del dopoguerra, ma anche l’arricchimento degli industriali del nord Italia. Lo stesso discorso può essere applicato all’acciaieria di Taranto. Chiaramente queste aree industriali sorgevano senza troppe cautele per le condizioni ambientali, dove c’è fame di lavoro si deve scegliere, la salute o morire di fame!
Cosa ha lasciato sul campo questa politica? Solo devastazione ambientale e miseria! La Sicilia, sulla base di tutte le statistiche economiche, è la regione più depressa d’Italia, si sono create delle immense aree che richiederanno decenni per essere bonificate, i residenti di queste zone hanno subito immani sofferenze per malattie di tutti i tipi, ma anche malformazioni diffuse nei bimbi che hanno avuto la sventura di nascere in questi luoghi. In cambio cosa hanno avuto? Il minimo necessario per vivere, nulla di più. La stessa cosa è avvenuta a Taranto, a Manfredonia e in altri luoghi dove sono stati istallati dei grossi poli industriali, dopo uno pseudo ed effimero “ benessere” sono iniziati i problemi di impatto ambientale e danni alla salute per la popolazione . I n verità i grossi impianti industriali sono incompatibili con i sistemi naturali e la loro convenienza economica esiste solo perché i danni da loro prodotti vengono scaricati sulla collettività. Allora perché i poli Industriali sono in crisi, perché c’è bisogno di meno materie prime trasformate? No, perché i costi delle bonifiche superano i ricavi, allora è meglio traslocare dove ci sono disperati disposti a cedere a qualsiasi ricatto per un tozzo di pane.
AGGIORNAMENTI DA GELA: IL RICATTO E’ COMPIUTO.
Come ho detto sopra la vicenda della raffineria di Gela non si è ancora conclusa. È notizia di questi giorni che un gruppo di genitori di figli nati con gravi malformazioni hanno intrapreso un’azione legale contro i vertici dell’ENI, chiedono un risarcimento danni per diversi milioni di Euro. In effetti la nascita di bimbi malformati a Gela, ma anche a Priolo e Milazzo, è molto superiore alla media nazionale, è ciò può essere spiegato solo con una forte esposizione ad inquinanti delle donne incinta. Ebbene l’Eni ha comunicato che non è disposta a fare nuovi investimenti nel sito industriale se non vengono ritirate le azioni legali dei genitori. Gli operai hanno risposto di non accettare simili ricatti, lavoro in cambio di salute. È paradossale che un’industria statale si rifiuti di risarcire dei cittadini. Questo spiega quali interessi difende questo Stato Borghese.
Un’ultima considerazione: non credo ci sia la reale volontà da parte dell’Eni di portare avanti la raffineria di Gela, la presunta conversione in biocarburanti è solo un modo per prendere tempo e disimpegnarsi, progressivamente, dal sito industriale. La produzione di biocarburanti potrebbe essere valida se derivasse da alghe coltivate in mare per lo scopo, ci sarebbe bisogno di una profonda riconversione industriale, produrre per il bene comune e non per il profitto, ma questo non può succedere in questo sistema economico e sociale.
PIERO DEMARCO
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