Redazione,
Bruxelles ne ha viste tante di manifestazioni da quando è sede del Parlamento e della Commissione europee, agricoltori, operai, sindacalisti, il variegato mondo anti-austerity o anti-euro, ecologisti, Femen, ecc. Lunedì 15 febbraio 2016 è stata la volta dei padroni. Raccolti sotto la sigla Aegis Europe, che raccoglie industriali europei di 30 settori manifatturieri, tra cui spicca per rilevanza la siderurgia, hanno indossato caschetti luccicanti e pettorine fosforescenti nuove di pacca, e sono “scesi in piazza per protestare”, neanche fossero dei NO Global.
Hanno tutti gli strumenti per farsi sentire, conoscenze con ministri ed europarlamentari, commissari, premier, ma hanno dovuto inscenare una manifestazione farsa. Affinché il vero scopo, la “protezione” dei loro profitti, venga mistificato con la salvaguardia dei posti di lavoro. A tal fine, con voli charter da tutta Europa, hanno cammellato un po’ dei propri lavoratori, quelli sempre ben disposti a schierarsi con l’azienda; e qualche sindacalista compiacente, quelli sempre pronti a sostenere che gli interessi dei padroni sono tutt’uno con quelli degli operai. La cronaca ha riportato poi di 5000 manifestanti, guarda caso esattamente quelli preannunciati.
Un manifesto esplicita le ragioni della protesta: “Noi, dipendenti, sindacati e datori di lavoro di industrie europee …. chiediamo ai leader dell’UE di negare la qualifica di economia di mercato (Market Economic Status – MES) alla Cina”. Cosa gliene frega agli industriali di questa qualifica che a fine dicembre 2016, dopo ben 15 anni di procedura per il riconoscimento, la Ue dovrà dare alla Cina, è presto detto. A uno stato entrato nel trattato di libero commercio, WTO, cui sia stato riconosciuto di essere un’economia di mercato (MES), nessun paese aderente a sua volta all’accordo può applicare dazi doganali o esperire procedure antidumping.
E i padroni europei, in questi ultimi anni, si sono dati un bel da fare in tal senso, trovando nella Commissione solerte sostegno. Ecco alcuni esempi di dazi all’importazione in vigore e che salterebbero con il MES alla Cina: biciclette, il dazio è in media al 48,5%; scarpe in pelle, una media di 16,5%; stoviglie in ceramica, dal 13,1% al 23,4% per le aziende cinesi che hanno collaborato all’indagine e del 36,1% per tutte le altre aziende; piastrelle, dal 30,6%, per le aziende cinesi che hanno collaborato all’indagine e del 69,7% per quelle che non l’hanno fatto.
Dal giugno scorso, tuttavia, la campagna per il non riconoscimento MES alla Cina si è fatta più pressante per l’intervento di un settore ben più rilevante, quello dei grandi produttori di acciaio. Nel 2015 l’acciaio cinese si è riversato sul mercato europeo in grandi quantità, soprattutto a partire da giugno in coincidenza con l’esplodere della crisi in Cina. La sovrapproduzione in genere e, tra le varie merci, anche di acciaio si è nuovamente palesata in tutta la Cina nel corso del 2015. La caduta della borsa di Shanghai in estate registrò le difficoltà nella realizzazione dei profitti dei grandi gruppi cinesi. Come al solito in questi casi, i produttori hanno riversato l’acciaio sovrapprodotto all’estero, tra cui l’Europa, e i prezzi si sono notevolmente abbassati mettendo in difficoltà anche multinazionali come ArcelorMittal. I produttori cinesi, forse, avranno anche venduto a prezzi scontati, nel tentativo di fare cassa. Da qui l’accusa dei padroni europei alla Cina di vendere sottocosto e di fare dumping, ovvero vendere a pezzi inferiori ai reali costi di produzione con l’obbiettivo di far fuori il concorrente.
Ora, a parte che fare il cosiddetto dumping, come oggi viene chiamato il vendere anche in perdita per eliminare i concorrenti più piccoli, è normale consuetudine per le grandi multinazionali di tutto il mondo, e storicamente quelle dell’acciaio europee e americane non si sono mai astenute da questa stessa pratica, anzi. L’essere costretti a vendere a prezzi stracciati può, nella crisi, diventare il necessario mezzo per resuscitare delle industrie capitalistiche. Le quali, di fronte alla sovrapproduzione e alla saturazione dei mercati, si trovano a un certo punto costrette a vendere a qualunque prezzo nel tentativo di recuperare almeno parte del capitale utilizzato e incagliato nella forma merce, sopratutto se deperibile e ossidabile come l’acciaio.
Verrebbe insomma da dire ai padroni europei: «l’acciaio cinese inonda i mercati a basso prezzo? E’ il vostro capitalismo in crisi bellezza, e si salva proprio chi riesce a recuperare quanto più capitale possibile dalla vendita delle merci sovrapprodotte e a rimanere alla fine lo stesso in piedi».
Invocare il protezionismo in piazza a Bruxelles, l’intervento dei leaders europei a protezione delle industrie europee, perché sono in pericolo migliaia di posti di lavoro in Europa, come i padroni e i loro servi hanno invocato settimana scorsa, mette invece le basi materiali di un confronto tra grandi paesi imperialisti che non può trovare soluzione pacifica. Per il momento è la dichiarazione di una guerra commerciale, ma poi?
I grandi produttori capitalistici cinesi che si trovassero impossibilitati da dazi o contingentamenti a vendere le proprie merci in Europa, perché non dovrebbero invocare a loro volta l’intervento dello Stato? Certamente non avrebbero problemi a ricorre a loro volta alla piazza. Se li hanno trovati i primi, i padroni europei, non avranno problemi i secondi, i padroni cinesi, a trovare un bel po’ di piccolo borghesi per riempire le piazze di Pechino. Dovranno anche loro ben convincere i propri leaders politici che si deve porre un freno a questa vecchia Europa protezionista che limita il libero mercato: a rischio ci sono milioni di posti di lavoro cinesi. Le manifestazioni cinesi rischiano, a questo proposito, di essere ben più numerose ed agitate di quella di Bruxelles di una settimana fa con i suoi miseri 5.000 sindacalisti, impiegati e tecnici europei. Le ritorsioni commerciali non farebbero che aggravare la crisi e il passaggio da guerra commerciale a guerra guerreggiata tra grandi potenze è un passo troppo breve, ci dice la storia.
R.P.
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