Caro Operai Contro,
così raccontano e definiscono la realtà che vivono, gli operai del settore dei servizi di Amazon di Piacenza che conta 830 dipendenti: “Una catena di montaggio 3.0, controllata dal primo all’ultimo momento. Appena un lavoratore comincia a usare una pistola laser, il suo nome viene associato all’apparecchio, così che i manager possano calcolare i tempi di lavoro”.
Scientificamente sfruttati che non vanno neanche in bagno, possono trovare la forza per cominciare a ribellarsi e resistere solo organizzandosi. Come hanno dimostrato (per restare al settore dei servizi), gli operai delle “cooperative” di facchinaggio. “Cooperative” i cui padroni e le condizioni di lavoro che impongono, fanno spesso da paravento al fatto che, a trarre profitto da questo brutale sfruttamento, ci sono sopratutto i padroni dei marchi della grande distribuzione.
La strada per organizzarsi non è semplice né breve. Già il fatto che gli operai di Amazon, cominciano a parlarne, a denunciare le condizioni di lavoro cui sono sottoposti, è un incoraggiante primo passo. Può essere un segnale della presa di coscienza di sé e della propria condizione, insieme al riconoscersi parte di una classe sociale, che in quelle stesse analoghe condizioni, ha bisogno di un proprio Partito per liberarsi e costruire un altro sistema sociale. Sarebbe veramente un bel segnale.
Saluti da un estimatore di Operai Contro
di Lidia Baratta (Dalla Rete)
Smistare e spedire: così i lavoratori Amazon non vanno più nemmeno in bagno Il racconto di chi lavora nel magazzino di Piacenza della multinazionale di Jeff Bezos: ”I bagni sono sempre puliti, perché nessuno li usa. La pressione è talmente tanta, che per non perdere tempo evitiamo di fare la pipì”
«I bagni qui sono sempre puliti, non li usa nessuno per paura di perdere tempo». A Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, si trova il magazzino di Amazon più grande d’Italia: 86mila metri quadri, 830 dipendenti circa e 100-120mila prodotti scaricati ogni giorno dai camion. Un labirinto di scaffali e nastri trasportatori dove arrivano e partono gli acquisti che facciamo comodamente online dal nostro computer.
Basta un clic per vederci recapitare da chissà dove un paio di auricolari per il nostro smartphone. Appena l’ordine parte, nei magazzini come quello di Piacenza si attiva il conto alla rovescia. “Negozi” che noi non vediamo, dove ogni secondo è calcolato, ogni mossa dei lavoratori controllata. Perdere tempo è un peccato capitale. «Andare in bagno si può, ma alla fine nessuno ci va», racconta chi ci lavora.
La parola d’ordine di Jeff Bezos è velocità. Che non significa camminare tra gli scaffali a passo spedito. «Qui corriamo letteralmente, lavoriamo sempre con il fiatone», raccontano gli addetti di Piacenza. «La pressione è alta, i manager calcolano i singoli minuti». E «andare a fare pipì o bere un bicchiere d’acqua non è ben visto dai capi, ti senti in imbarazzo a farlo anche nei confronti dei colleghi. Ecco perché i bagni sono sempre puliti». Questa è la realtà che si nasconde dietro i nostri clic.
La mattina si fa un primo briefing. I lavoratori vengono invitati dal manager a fare stretching tutti insieme. Poi si illustra una success story, interna all’azienda o no. Il manager fa una previsione di quanti oggetti arriveranno sul nastro quel giorno. Si fa un applauso e si parte spediti.
Questa è la realtà che si nasconde dietro i nostri clic: “Andare a fare pipì o bere un bicchiere d’acqua non è ben visto dai capi, ti senti in imbarazzo a farlo anche nei confronti dei colleghi. Ecco perché i bagni sono sempre puliti”
«Il livello di pressione è altissimo», ripetono. «Ci sono specifici standard che devi raggiungere». Se sei un receive, cioè uno di quelli che registra con la pistola laser tutto quello che arriva e passa sul nastro, l’obiettivo aziendale è di 300 oggetti l’ora, vale a dire cinque al minuto. Una volta memorizzati nel computer, a portare gli oggetti negli scaffali sono i runner. Riempiono le ceste, spesso pesanti, e corrono senza sosta da una parte all’altra del magazzino. Sono giovani, quasi tutti provenienti dall’Est Europa. Per gli oggetti più grandi (elettrodomestici, televisori ecc.), si usano invece i muletti. Dall’altra parte del magazzino, c’è chi si occupa dell’outbound, cioè dell’uscita degli oggetti che arrivano nelle nostre case. Ogni addetto ha un tot di secondi per trovare i prodotti. Anche qui tutto è registrato e calcolato sulla pistola laser.
Una catena di montaggio 3.0, controllata dal primo all’ultimo momento. Appena un lavoratore comincia a usare una pistola laser, il suo nome viene associato all’apparecchio, così che i manager possano calcolare i tempi di lavoro.
«Sanno in tempo reale cosa fai e in quanto tempo lo fai», raccontano. E se sei fermo al computer, «c’è la telecamera che passa quattro o cinque volte durante il turno per controllare la postazione». Stress, ansia, fatica. È così che i lavoratori descrivono il clima in magazzino. «Tutti devono avere il cartellino sempre visibile per essere riconoscibili», raccontano. «Quello di chi ha il contratto a tempo indeterminato è verde; quelli con il tempo determinato, che sono la maggioranza, invece ce l’hanno blu». E sono proprio quelli con il contratto in scadenza a dover seguire gli standard aziendali richiesti per sperare nell’assunzione. «C’è l’ossessione della produttività. È stressante, non ti puoi mai fermare perché sei sempre monitorato, e quindi eviti di andare anche in bagno». E c’è l’ossessione della sicurezza. «I cartelli ti ricordano di usare i guanti, ti correggono se non ti pieghi sulle ginocchia per prendere i pacchi. Ma se ci sono molti prodotti da smistare, chiudono tutti un occhio». I turni ci sono. Tanti vengono assunti all’inizio con un part time. «Ma poi ti fermi sempre più del dovuto».
Quando si entra in azienda si lascia tutto negli armadietti e si passa sotto un metal detector (come quello degli aeroporti) in entrata e uscita per evitare i furti di merce. Se hai qualcosa con te, la guardia di sicurezza fotografa tutto e poi ti fa passare. A metà turno c’è una pausa di mezz’ora. «Ma anche quella la fai di corsa», raccontano. «Devi passare il metal detector in uscita, scendere sotto a prendere le tue cose nell’armadietto. A conti fatti, ti restano sì e no 12-13 minuti di pausa, e torni sempre correndo con il fiatone». Ogni minuto è prezioso.
Perché se un lavoratore non raggiunge gli standard stabiliti dall’azienda, partono i richiami. «Dipende da quanto sei sotto la soglia», spiegano. «Se hai raggiunto il 50%, ti fanno una lettera di richiamo. Dopo la seconda o la terza, ti licenziano. Se sei arrivato all’80-85%, il manager ti convoca, ti dice di andare più veloce, con frasi del tipo “Se non raggiungi gli standard ne va del tuo futuro”». La pressione a fare presto è continua. «Diventi uno dei loro robot».
Appena un lavoratore mette piede nel magazzino, viene formato per muoversi a ritmi martellanti. Ciascuno con una piccola mansione da ripetere e ripetere, tante volte per quanti sono i nostri ordini. Molti mollano. I contratti sono brevi, ma la paga oraria «è buona», dicono (7,50-8 euro l’ora).
Da Amazon si assume sempre. Soprattutto nei picchi stagionali, come Natale. E il ricambio è continuo. Se non ti mandano via loro, vai via tu.
Spesso ti richiamano quando ne hanno bisogno. Come se fosse un lavoro stagionale. «Possibilità di carriera non ce ne sono», raccontano i ragazzi. «Molti sono giovani che sono qui per farsi qualche soldo. Prima si andava nei bar o nei pub, ora c’è Amazon. Tanto lo sai che non resisterai per molto a questi ritmi». L’età media è di 31 anni. Ma c’è anche qualcuno più grande, che ha perso il lavoro e che nei magazzini di Piacenza ha trovato un’occasione di impiego. «Io mi faccio un po’ di soldi e me ne vado», racconta un ragazzo. «Ma c’è chi ha famiglia e a questi ritmi deve resistere, altrimenti lo sbattono fuori».
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