Redazione operai contro,
Sono Giovanni operaio bresciano di 51 anni e dipendente in una piccola officina di Lumezzane con un contratto a tempo determinato in scadenza fine anno. Ho letto un articolo che parla del sindacato italiano in occasione della presentazione di un libro dal titolo “La ricetta contro il declino? Tra multitasking e partecipazione”.
Non potevo non scrivervi due righe in merito poiché sono molto deluso del sindacato sopratutto per quello che ho subito personalmente quando lavoravo in una grande azienda bresciana con oltre 200 lavoratori.
Circa 4 anni fa il padrone della ditta non riusciva più a pagare gli stipendi e dopo aver fatto quasi un anno e mezzo di cassa integrazione lo stesso padrone ha iniziato ha chiedere dapprima la mobilità volontaria incentivata e in ultimo dichiarando 120 licenziamenti.
Noi purtroppo in piena fiducia abbiamo sempre dato retta ai sindacalisti esterni che ci raccontavano tutte le volte che si voleva protestare che bisognava affidarsi alle istituzioni locali come al sindaco e ai politici regionali.
Ci portavano a spasso senza mai uscire dalle righe nelle manifestazioni che terminavano con incontri con i personaggi istituzionali. Ai tavoli ci sentivamo ripetere ogni volta che loro erano solidali con noi e che avrebbero fatto tutto il possibile per farci ottenere una continuazione degli ammortizzatori sociali nella speranza che il padrone cambiasse idea.
Niente presidi o blocchi ad oltranza della portineria come nessun tentativo di organizzare una occupazione della fabbrica anche nel momento in cui sono stati dichiarati i licenziamenti.
Il sindacato ci ha preso in giro, ci dicevano che solo i tavoli di trattativa con i politici e le istituzioni potevano far pressione contro l’obiettivo del padrone. Alla fine la fabbrica ha chiuso, chi aveva i requisiti per la pensione se ne andato via ma per molti è arrivato il licenziamento o il ricollocamento attraverso agenzie della regione o private accettando purtroppo contratti da precari come per il sottoscritto.
Sono convinto che se noi operai non delegavamo ai funzionari sindacali i nostri problemi, sicuramente organizzandoci in proprio per resistere al padrone avremmo reso più difficile i nostri licenziamenti.
Per noi operai la risposta è una sola, il sindacato è in crisi da tanti anni visto le pessime condizioni lavorative e sociali in cui ci troviamo, sfruttati, ricattati, sottopagati e con il rischio di morire per infortunio sul posto di lavoro.
Spesso leggo sul vostro giornale Operai Contro affermazioni che occorre sostenere il sindacalismo operaio in ogni luogo di lavoro, io sono pienamente d’accordo.
Cara redazione invio l’articolo di Massimo Mascini per un utile dibattito.
Giovanni Locatelli di Lumezzane (Bs) operaio precario.
La ricetta contro il declino? tra multitasking e partecipazione
Ma il sindacato, in particolare il sindacato italiano, è in crisi? In declino? E se è così, che tipo di declino? E, soprattutto, come porvi rimedio? Interrogativi che si ripropongono. Erano più di moda qualche mese fa, prima che il governo Renzi riprendesse un’interlocuzione con le rappresentanze del lavoro (e della produzione). Ma anche oggi sono in gran voga. Tanto più dopo la pubblicazione di un bel libro di Mimmo Carrieri e Paolo Feltrin, “Al bivio”, edito da Donzelli con una presentazione di Guido Baglioni, che ha rilanciato l’argomento.
La tesi del volume, espressa dagli autori in una presentazione che ha avuto luogo a Roma, alla facoltà di Sociologia della Sapienza, presenti la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, il presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano e il giuslavorista Tiziano Treu, è precisa: se declino vero e proprio non è, affermano i due autori, è certamente un almeno parziale declino. Nel senso che gli iscritti alle organizzazioni sindacali non calano paurosamente, i bilanci sono buoni, il personale è triplicato in trent’anni, ma c’è un appesantimento, causato per lo più dal fatto che dopo una prima fase storica queste associazioni tendono sempre a una certa istituzionalizzazione. Non è una specificità italiana questa, la si può riscontrare in tutta Europa.
A questo appesantimento il sindacato ha reagito fornendo una serie di servizi, ai propri iscritti e non solo. I Caf, i patronati, gli enti bilaterali, tutte realtà importanti per svariate ragioni. Perché contribuiscono a far affluire alle casse dei sindacati circa un miliardo di euro l’anno, raddoppiando così i bilanci, ma soprattutto mettendo il sindacato a contatto con una fetta di lavoratori molto ampia, che altrimenti non avrebbero avuto alcun contatto con le centrali di rappresentanza.
I Caf gestiscono 7 milioni di pratiche l’anno, i patronati altri 5 milioni: sono in tutto dodici milioni di pratiche, che non faranno riferimento a 12 milioni di lavoratori, perché in molti casi si sovrappongono, ma certamente costituiscono un insieme di rapporti molto interessante. Anche perché la metà di queste pratiche fanno riferimento a persone non iscritte al sindacato che però ne vengono a contatto e spesso finiscono per tesserarsi.
La tesa dei due autori è che questa realtà di servizi è estremamente importante, ma non sufficientemente considerata, non raccontata. E quindi non in grado di far scattare quella svolta che invece servirebbe al sindacato per superare l’opacità che sembra frenarlo. Paolo Feltrin ha citato il caso della Coldiretti, che anni addietro, sull’orlo del fallimento, ha avuto un’impennata di orgoglio, ha cambiato pelle e adesso ha una invidiabile vitalità. Per fare questo, ha detto Feltrin, servirebbe però una leadership illuminata, coraggiosa e cattiva. E i sindacati non ce l’hanno o non ce l’hanno ancora.
E il sindacato che pensa? Susanna Camusso non ha negato le difficoltà, anche se ha ricordato con un pizzico (o anche qualcosa in più) di soddisfazione le “rapide retromarce” attuate dal governo Renzi sul fronte del confronto con il sindacato. Ma ha anche detto che a suo avviso il futuro del sindacato non è quello di fornitore di servizi. Questi servono, certamente, ma per prima cosa lo stato non dovrebbe mettere i cittadini nella necessità di dover ricorrere a terzi per sbrigare le loro pratiche, previdenziali o assistenzialistiche che siano. Ma soprattutto il futuro del sindacato deve essere la difesa degli interessi dei lavoratori, per questo sono nati e a questo devono servire.
Contattare i lavoratori ed esprimere la difesa dei loro interessi è però compito complesso, laddove invece una volta era più facile, bastava andare all’uscita delle grandi fabbriche per avere il contratto con i lavoratori, che adesso invece devono essere rincorsi nelle piccole fabbriche, nei sottoscala o a casa loro. Quel mondo non c’è più, bisogna prenderne atto e adeguarsi. Ma soprattutto il sindacato deve allargare l’area dei diritti, senza dover necessariamente abrogare il conflitto. Evitando, ha detto ancora Camusso, le corporativizzazioni e seguendo invece la strategia confederale, per sua natura attenta alla pluralità degli interessi da difendere.
Insomma, per la Camusso non c’è declino, come non c’è per Damiano. Il quale ha detto di non essere mai stato interessato al dibattito sul colore del gatto. Importante, ha ricordato, non è il suo mantello, ma che il gatto acchiappi i topi. E del resto, ha aggiunto, le storie sul declino del sindacato si rincorrono, perché il sindacato nella sua lunga storia di crisi ne ha vissute tante, quella della scissione del 1948, quella alla Fiat nel 1955, quella dell’altra Fiat, nel 1980. E ancora quella del 1983 per la scala mobile. E anche adesso con il blocco dei contratti pubblici per sette anni. La verità, ha detto, è che oggi ci sono tante novità da cogliere, la ritrovata unità, la ripresa del confronto con il governo. Certo, resta il problema di fondo che adesso è difficile contattare i lavoratori e non è facile ricomporre il lavoro, ci sono sempre nuove frontiere: si tratta di affrontarle man mano che si presentano.
E lo stesso ha detto Treu, per il quale il sindacato non è alle prese con un declino inarrestabile, anzi sta meglio di tanti altri sindacati di paesi vicini che vivono difficoltà crescenti. Il futuro, a suo avviso, forse è proprio questo sindacato multitasking, che fa tante cose assieme, risponde a bisogni diversi con funzioni plurali, tutte positive. Segnali positivi ce ne sono, dal fronte contrattuale per esempio, con i metalmeccanici e questa ripresa di contratti per quelli per il pubblico impiego. Accordi che hanno espresso anche contenuti fortemente innovativi. Servono regole per la contrattazione, questo sì, perché avere avuto sette accordi in cinque anni, ha ricordato, non è un segnale di buona salute. Ma devono essere le parti sociali a esprimere queste regole, non può certo intervenire il governo. E questo è già un punto fermo. Il tema irrisolto, secondo Treu, è quello della partecipazione: ci sono tante esperienze locali interessanti, adesso è arrivato anche l’accordo tra i sindacati, ma bisogna andare avanti.
Anche per Carrieri, che ha chiuso il dibattito alla Sapienza, è proprio sul versante della partecipazione che occorrerebbe muoversi. E’ indubbio, ha spiegato, che il sindacato debba innovare, perché la sua influenza sulle relazioni industriali e sulla politica è certamente oggi in fase calante. Quindi, cambiare, più o meno velocemente. Un’indicazione che ha trovato il consenso di Camusso, anche se per il segretario della Cgil il cambiamento non necessariamente deve essere veloce: meglio muoversi bene che in fretta.
Il punto è che il sindacato, ha rilevato Carrieri, non è immobile, non sta fermo, c’è un susseguirsi di micromovimenti, un formicolio che però, questo il problema, non riesce a diventare sistema. Serve invece uno sguardo lungo, serve riuscire a dare un’idea del futuro, che adesso manca. Per cui va bene il sindacato multitasking, che sa fare tante cose, ma se si riesce a librarsi sopra la quotidianità. E poi, ha denunciato, c’è un problema di democrazia, serve più democrazia rappresentativa e più democrazia partecipativa. Bisogna, ha detto, dare più ascolto agli iscritti, riuscire a farli partecipare, ma davvero.
Massimo Mascini
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