Redazione di Operai Contro,
Protezionismo, nazionalismo, populismo sono ormai argomenti di discussione giornaliera su quotidiani, riviste, siti web. Non passa giorno che non ci sia intervento del banchiere, del politico o dell’economista di turno che esprima grande preoccupazione per come si stiano mettendo le cose.
Il presidente cinese, ultimamente, al World Economic Forum, ha affermato che «accusare la globalizzazione economica per i problemi del mondo è incoerente con la realtà». [Invece,] «la globalizzazione ha alimentato la crescita globale e favorito il movimento di merci e capitali, i progressi a livello scientifico, tecnologico e di civiltà, e le interazioni tra le persone».
Il presidente di Intesa San Paolo, Bazoli, in un articolo sul Corsera di qualche giorno fa, afferma che la responsabilità della crisi del 2008 non può essere attribuita ai processi di globalizzazione dell’economia in sé che anzi sono state fonte di crescita economica e progresso civile del mondo intero, ma alla gestione di quei processi. La mancanza di politiche capaci di guidare i processi economici e moderare la ricerca esasperata del profitto (sic!) hanno permesso l’accentuarsi delle diseguaglianze, della forbice tra ricchi e poveri, dell’impoverimento del ceto medio e dell’affermarsi di quei movimenti e partiti populisti che stanno mettendo in crisi la democrazia. [E] “se non si trovasse un rimedio a questa crisi (…) il mondo sarebbe in pericolo andando incontro ad alternative radicali, o reazionarie, anche di natura violenta”. La soluzione – per Bazoli – è ristabilire il primato della politica sull’economia, una “economia sociale di mercato fortemente competitiva” che veda l’Europa unita capace di affrontare le sfide della globalizzazione.
Economisti e studi di parte liberal-democratica, su giornali e riviste, tentando di esorcizzare le minacce di attuare misure protezioniste da parte di Trump, cercano di dimostrare che tali misure, nell’attuale economia globalizzata, sarebbero impraticabili e controproducenti. Ci dicono che: “[La] rivoluzione nella logistica, nelle comunicazioni e nella tecnologia unite all’abbattimento delle barriere doganali operato dal WTO hanno scardinato le catene del valore [tradizionali]”. La divisione internazionale del lavoro e lo sfruttamento quanto più possibile delle economie di scala hanno portato ad una parcellizzazione e specializzazione della produzione ad un tale punto che oggi il 75 % del commercio globale riguarda solo beni intermedi. Pertanto, secondo loro, in un contesto in cui le economie dei paesi sono così interconnesse, qualsiasi forma di protezionismo non farebbe altro che aumentare i costi di produzione causando un danno invece che un vantaggio alle aziende e ai consumatori dei paesi che le adottassero. Cosi sarebbe anche nell’eventuale guerra commerciale alla Cina promessa da Trump.
Tuttavia, il timore che Trump possa attuare le misure protezionistiche promesse nei confronti di Cina, Messico e Germania e delle eventuali ritorsioni che questi ed altri paesi potrebbero attuare (scatenando guerre commerciali e delle valute) resta. E questo scenario, ci dicono, metterebbe a rischio “l’ordine economico liberale che ha sostenuto la prosperità dal 1948”(!). La risposta “…alle lacerazioni lasciate dal libero commercio, dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica: disoccupazione e impoverimento della middle class, dipende più da guerre alla povertà, politiche ed investimenti sociali, riqualificazione e istruzione che non da guerre commerciali patriottiche o meno”.
Ma questi signori, che ci descrivono la globalizzazione come un processo di sviluppo economico e sociale irreversibile e necessario le cui storture ed eccessi sarebbero pienamente governabili, mentre il vero rischio per la prosperità globale sarebbero le misure protezionistiche, raccontano solo una parte della storia. La parte di storia che non ci raccontano è che la massimizzazione dei profitti che ha guidato e guida i processi di globalizzazione è l’altra faccia della massimizzazione dello sfruttamento degli operai a livello globale. Che operai della Foxconn in Cina si suicidino per il troppo lavoro, che i bambini e le donne indiane lavorino per pochi dollari per produrre, in condizioni disumane, scarpe e vestiti, che le continue delocalizzazioni alla ricerca di salari sempre più bassi producano disoccupazione e miseria sono lì a dimostrare quali sono le basi della globalizzazione, delle economie interconnesse, delle “nuove catene di valore” che hanno al loro vertice le grandi multinazionali.
Non ci raccontano che è la stessa ricerca del massimo saggio di profitto, del massimo sfruttamento degli operai la base dei limiti che vengono ciclicamente posti alla continua accumulazione dei Capitali: La crisi è la manifestazione dell’impossibilità del capitale di realizzare i profitti ad un determinato livello. La globalizzazione e la liberalizzazione dell’economia non sono state interrotte, accidentalmente, dalla crisi ma quei processi hanno raggiunto il loro culmine nella crisi.
E nella crisi, le guerre commerciali sono iniziate prima dell’arrivo di Trump, così come sono iniziati prima di Trump i fallimenti degli accordi per allargare ulteriormente le aree di libero scambio, il protezionismo. Come prima di Trump è iniziata la corsa agli armamenti, il sostegno militare ai propri capitalisti per la conquista di nuovi mercati ovvero per sconfiggere capitali stranieri presenti in aree di proprio interesse.
Trump dice: «Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri Paesi che fabbricano i nostri prodotti, rubano le nostre aziende e distruggono i nostri posti di lavoro». E, ancora, «seguiremo due semplici regole: compra americano e assumi manodopera americana». Ma Trump ha semplicemente reso palese ciò che ormai era maturo nelle condizioni economiche e sociali dell’America. Trump è la soluzione che, nell’attuale situazione, permette alla Borghesia e ai capitalisti di continuare a mantenere potere politico ed economico nelle proprie mani, con buona pace dei liberal che non disdegneranno tale risultato. E presto altri paesi seguiranno la stessa strada. Non importa quali conseguenze questo possa avere.
Di cosa siano capaci i borghesi, pur di mantenere il potere e il loro sistema sociale in piedi, l’hanno già dimostrato nel secolo scorso scatenando due guerre mondiali; unica loro soluzione alla ripresa dell’accumulazione capitalistica oggi di nuovo profondamente in crisi.
P.Se.
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