Redazione di Operai Contro,
Il capo del governo Italiano Gentiloni ha fatto un accordo con le bande armate dei signori della guerra libici per bloccare gli emigranti nei campi di concentramento in libia. Gentiloni è complice di queste bande che sfruttano la miseria degli emigranti. Grazie alla negazione della libera circolazione degli emigranti, decisa dai padroni e governi dell’europa, le bande armate libiche possono tenere prigionieri, torturare e sfruttare gli emigranti. Sono i padroni europei e i loro governi i veri responsabili, i veri procacciatori di affari di questi criminali. I padroni non fermeranno la loro crisi economica impedendo la libera circolazione di uomini, donne e bambini.
Un operaio Senegalese
Lo chiamano il “ghetto di Alì” a Sabha, una fortezza nel deserto nel sud est della Libia, mura alte e filo spinato, miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro, dentro due gironi danteschi, uno per uomini, l’altro per donne e bambini, dove da mesi vengono tenuti prigionieri un migliaio di migranti, sottoposti a violenze di ogni genere, torture in diretta telefonica con le famiglie rimaste nei villaggi, filmate e inviate per spillare altri soldi. Il mare, il miraggio di quella costa dove sono diretti per imbarcarsi su un gommone fatiscente o su una qualsiasi carretta che li porterà in Italia, è ancora molto ma molto lontano da lì, quasi 800 chilometri. E’ la prigione “privata” dei trafficanti di uomini, impenetrabile e feroce, quella in cui le milizie delle organizzazioni criminali che portano in Europa centinaia di migliaia di migranti, torturano, violentano, stuprano, uccidono senza pietà: qualsiasi cosa pur di incassare, e su banche estere, altri soldi, un riscatto per la vita di uomini, donne e bambini rapiti nel deserto lungo la rotta del centro Africa, Costa d’Avorio-Burkina Faso- Niger-Guinea Bissau, o portati lì con l’inganno da presunti mediatori del viaggio. Chi può paga e, se resiste, nel giro di qualche mese è fuori con segni indelebili sul corpo e nella mente, chi non può viene ucciso. Chi prova a scappare viene stroncato alle spalle da colpi di mitragliatrici.
E’ un racconto dettagliato e atroce quello che alcuni sopravvissuti, arrivati a Lampedusa, i corpi martoriati dalle sevizie, hanno fatto agli investigatori della squadra mobile di Agrigento diretti da Giovanni Minardi dopo aver avuto il coraggio di indicare e far arrestare uno dei torturatori, il ventenne ghanese Eric Ackom, che, alla fine, si era imbarcato con loro su un gommone poi soccorso nel Canale di Sicilia da una nave umanitaria. Un arresto, con tentativo di linciaggio, che non conclude l’inchiesta della Procura di Palermo che ora, sperando nella collaborazione delle autorità libica, vorrebbero individuare questa fortezza-prigione per salvare centinaia di vite umane.
“Eravamo in mezzo al deserto – racconta uno dei prigionieri sopravvissuti – era una grande struttura, recintata con dei grossi e alti muri in pietra, costantemente vigilata da diverse persone, di varie etnie, in abiti civili e armati di fucili e pistole. La struttura è suddivisa in tre blocchi: nel mio eravamo 200 migranti di varie etnie…Giunti nel ghetto, i membri dell’organizzazione ci dissero che avremmo dovuto fargli pervenire, altri 1200 euro per essere liberati. Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia e mentre avanzavano le richieste di denaro mi torturavano e seviziavano in maniera tale da fargli sentire le mie urla strazianti”. Migranti appesi a testa in giù flagellati con tubi di gomma in tutto il corpo, i “ribelli” trattati con cavi elettrici applicati nelle parti intime, donne stuprate e seviziate. “Durante la mia permanenza nel ghetto, da dove è impossibile uscire, ho visto uccidere persone. So che mio cugino e altri hanno provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita. Temo che anche lui sia stato ucciso”.
Un altro migrante spiega l’inganno con cui uomini e donne che hanno già pagato per il viaggio verso l’Italia finiscono nel ghetto. “Sono partito dalla Costa d’Avorio e in Niger ho conosciuto un facilitatore. Lo abbiamo pagato per raggiungere Tripoli. Eravamo circa cento. Malgrado gli accordi erano di condurci a Tripoli, siamo arrivati a Sabha nel deserto dopo quattro giorni. Ci dissero che saremmo rimasti lì solo un paio di giorni, ma eravamo in prigionieri. All’interno della grande recinzione ci hanno perquisiti e spogliati di qualsiasi nostro avere. Vi era un grande muro in pietra alto tre metri, all’interno quattro containers, tre per gli uomini e uno per le donne. Eravamo quasi 800 persone. Il carcere era vigilato ininterrottamente da guardie armate di fucili mitragliatori. Porto ancora addosso i segni delle violenze fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute all’acqua bollente che mi versavano addosso. Sono rimasto lì cinque mesi fino a quando i miei familiari non hanno versato su Money gram la somma richiesta per riscattare la mia libertà”.
di ALESSANDRA ZINITI
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