dal fatto quotidiano
È la dannazione di molte generazioni, dai nati negli anni Sessanta che ormai hanno cinquant’anni, ai venticinquenni di oggi, nati negli anni Novanta: avere un lavoro, anche a tempo pieno, che però non consente la sopravvivenza. La possibilità, cioè, di pagare un affitto, le bollette, le spese alimentari e quelle, magari, di uno o due figli. Il diritto, come recita la nostra Costituzione, ad avere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Al contrario questi lavoratori sono arrivati sul mercato quando entrare nella pubblica amministrazione, o in enti statali o nell’insegnamento, cominciava a diventare sempre più difficile, se non impossibile. Sono lavoratori che raramente hanno un contratto da dipendenti – e quando ce l’hanno, magari per piccole aziende private, hanno un netto di poche centinaia di euro – e per lo più lavorano con contratti a tempo determinato, di apprendistato, di collaborazione, con i voucher ma soprattutto con partita Iva, ormai utilizzata per impieghi che un tempo sarebbero stati certamente rapporti di lavoro dipendente.
La logica, però, è contro di loro: perché più sono precari, meno guadagnano, nonostante costino meno in termini di contributi e tutele alle aziende per le quali lavorano. E pure il tempo è contro di loro, visto che la precarietà non si trasforma mai in sicurezza, anzi tende a cronicizzarsi, mentre i compensi diminuiscono di anno in anno. Così, e nonostante lavorino l’intera giornata, i working poor italiani si ritrovano con entrate a volte ridicole. “Ma più che lavorare che possiamo fare, andare a rubare?”, si chiede Alice, cinquant’anni e ancora a casa dai suoi.
Per sopravvivere, come raccontano da anni i rapporti Istat e Censis, si fa di tutto: dalle rinunce a fare figli, una scelta pesante che molti trentenni però stanno più o meno consapevolmente facendo, alla richiesta di aiuto ai genitori, che passano ciò che possono: soldi per la spesa e il parrucchiere, come nel caso di Sara. Oppure un appartamento da affittare, come per Francesco, che ci mantiene i due figli che altrimenti non avrebbe potuto avere. Molti poi, quelli che ammettono candidamente di evadere, almeno in parte. Come Marco, meccanico, che manda i soldi a casa perché i genitori sono poveri e con 1400 euro lorde – con partita Iva – finisce per avere in mano, tolte tasse e contributi, pochi spiccioli. “Lo faccio per non andare sotto i ponti. E nonostante la mia ragazza lavori, anche noi siamo due giovani che hanno deciso che un figlio non lo possono avere. La verità è che basta un passo falso e sei fottuto. Tu e tutta la tua famiglia”.
Quando chiedi loro perché non emigrino, rispondono che andarsene non è facile. Bisogna conoscere le lingue, ma soprattutto, paradossalmente, servono soldi anche per partire, poter stare un periodo in un altro Stato, trovare un lavoro, imparare a parlare la lingua del posto. E quando, infine, domandi se c’è un partito che li rappresenti alzano le spalle. Vorrebbero il reddito di cittadinanza, cioè un’integrazione a un reddito troppo basso, “basterebbero cinquecento euro al mese per svoltare”. Ma sulle politiche del lavoro degli ultimi governi non hanno dubbi: da Sacconi a Poletti la loro condizione è peggiorata, la deregulation si è accentuata, la precarietà è diventata endemica, radicale, mentre la politica – e pure i media, e insieme a loro i sindacati – continuano a parlare di “lavoratori” facendo riferimento solo ai dipendenti. Colpevolmente ignari che si tratta di una specie in via di estinzione. “Certo”, dicono tutti, “loro hanno uno stipendio fisso, il vitalizio per quando smetteranno di lavorare e in più piazzano i loro figli ovunque, come scopriamo puntualmente. Di noi, e della realtà, non sanno nulla, né nulla gli interessa”.
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