Una banale regola per la sicurezza sul lavoro consiglia che a piantare il chiodo nella trave sia lo stesso lavoratore che colpisce col martello. Nonostante gli allarmi e gli avvertimenti, accade molto frequentemente però che questa regola sia disattesa e che qualcuno finisca all’ospedale per aver tenuto fermo il chiodo mentre l’altro calava deciso il martello!
Federmeccanica, l’associazione degli imprenditori che coordina le imprese metalmeccaniche in Italia, ha lanciato in questi giorni il decalogo sulle nuove relazioni industriali delle fabbriche 4.0 dei prossimi anni. Un progetto ambizioso. Si parla addirittura di quarta rivoluzione industriale che dovrà coinvolgere tutti i soggetti interessati: dagli imprenditori ai lavoratori, passando per la scuola dove i giovani attraverso l’alternanza scuola-lavoro potranno uniformarsi al modello di formazione utile allo sviluppo della competitività delle imprese.
Proprio la competitività delle imprese rappresenta il fulcro del decalogo. Anzi: la competitività delle imprese è l’elemento centrale dell’impegno che deve coinvolgere tutte le parti in causa. E’ l’obiettivo finale, lo scopo di tutte le azioni e dei provvedimenti che il governo, i tecnici delle industrie, i proprietari e le organizzazioni dei lavoratori dovranno attivare per fare in modo che anche i lavoratori, dagli strati superiori fino a quelli più subordinati, siano immersi e uniti verso il conseguimento di questo obiettivo. Un vero e proprio manifesto dell’”Umanesimo Metalmeccanico” che una volta digerito il principio dello sviluppo della competitività si snodi in altri obiettivi ad essa funzionali: istruzione, salute, sicurezza, ambiente.
Da dove si deve cominciare però? Qui gli imprenditori metalmeccanici hanno le idee molto chiare. Si deve partire dai salari, dalle retribuzioni: il compenso che la forza lavoro dell’industria 4.0 riceverà per il suo uso dovrà essere collegato alla produttività aziendale. In particolare: “il legame tra salari e produttività aziendale dovrà portare all’impegno a promuovere in ogni occasione e in ogni sede la cultura della retribuzione variabile che deve diffondersi in maniera uniforme e coerente tra i lavoratori e le imprese. Retribuzione variabile sia nella forma che nella sostanza.”
Come si può vedere, gli imprenditori metalmeccanici spacciano attraverso grandi proclami filosofici illustrati in pompa magna dalla loro stampa, ricette antiche e annebbiati obiettivi che alla lunga si riversano nel secolare conflitto tra i profitti e i salari. Per loro i salari devono essere legati al risultato dell’impresa, devono variare rispetto alla sua capacità di fare profitti. Il loro livello deve essere funzionale alla capacità di rendere competitiva la loro azienda rispetto alle altre imprese. In questo modo fanno finta di non capire, o meglio, cercano di nascondere la reale natura delle retribuzioni e del rapporto tra il salario e il guadagno dell’imprenditore che sarà poi, questo si, di esclusivo appannaggio degli azionisti e dei proprietari dell’impresa.
In questa orgia di desideri infatti, gli imprenditori metalmeccanici non vogliono accettare che in questo sistema sociale il salario è in primis il compenso ricevuto dai lavoratori per aver ceduto la propria forza lavoro a chi ha la fortuna di possedere le fabbriche e i macchinari necessari alla produzione. La quantità di retribuzione che si riceve in virtù di questo contratto dipende dai rapporti di forza tra i lavoratori e le imprese, ma soprattutto dal costo dei beni necessari a mantenere in efficienza media i lavoratori destinati a questo sacrificio. Il costo di questo pacchetto di prodotti è socialmente determinato e varia in ogni periodo storico e non dipende assolutamente dalla competitività delle loro singole imprese. Che gli imprenditori se ne facciano una ragione: il tentativo di legare le retribuzioni all’andamento della competitività aziendale è fuori dalle regole del sistema sociale tanto caro a loro stessi e che gli permette di mantenere tutti i privilegi. E se anche in alcuni periodi la forzatura di queste regole porta ad accordi che sembrano andare nella direzione desiderata dagli industriali, ci pensa poi la crisi a spazzare ogni illusione e a riportare il fiume all’interno dei suoi argini naturali.
Dal canto loro, i lavoratori devono prendere coscienza dei meccanismi e delle leggi che regolano la nostra vita: viviamo un’epoca in cui rovesciare la piramide della società potrebbe essere molto meno complicato rispetto al compito che hanno dovuto affrontare gli operai e i contadini russi cento anni fa. Oggi molte imprese hanno raggiunto forme di concentrazione tali per cui, loro malgrado, sono diventate “imprese sociali”. Le esigenze fiscali hanno portato gli Stati ad affinare le istituzioni di controllo e le esattorie di imposte, mettendo sotto la lente di ingrandimento i patrimoni, le ricchezze possedute, i fatturati delle imprese. Per le loro stesse esigenze di razionalizzazione hanno esteso questo processo a tutta la società attraverso istituti e centri studi di ricerca. Il controllo operaio sulla produzione e sulla ricchezza era tra i primi compiti dei rivoluzionari russi. Un compito arduo e complicato dall’arretratezza della realtà sovietica di allora. Oggi non siamo in quelle condizioni. Questo controllo è già stato realizzato dalle istituzioni della nostra società. Lo troviamo già pronto. Per noi si tratta solo di cambiarne la direzione.
E’ arrivato il momento di prendere coscienza di queste possibilità. L’alternativa consiste nel continuare a reggere il chiodo ai nostri padroni e permettere loro di continuare a battere sulle nostre dita in barba ad ogni regola sulla sicurezza della nostra esistenza.
F.A.
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