Scrivo questa nota dopo aver letto il documento di sintesi dell’ assise di Verona della Confindustria del 16 febbraio 2018, tenuta in piena campagna elettorale. In quest’Assise sono stati organizzati 6 tavoli tematici, coinvolti 8500 imprenditori, con ben 750 interventi di proposte e indicazioni di politica economica, e sono stati raccolti 90 documenti con contributi scritti da parte di imprese e associazioni tra le più ricche e influenti del paese.
Il documento è uno spaccato di quello che desidera la classe degli industriali dopo le elezioni, un accurato appello ai futuri vincitori (chiunque essi siano, non hanno particolari preferenze), affinché tengano conto dei loro consigli e dei loro interessi che ritengono decisivi per le sorti dell’Italia.
La riunione deve essere stata per loro entusiasmante e ricca di argomenti allucinogeni perché alla fine gli industriali hanno avuto una Visione, una luce in fondo alla galleria dove il loro treno dovrà scegliere tra due binari:
“LA VISIONE. L’Italia è a un bivio. Se ai tempi delle Assise del 2011 l’obiettivo era superare la grande recessione, in queste Assise del 2018 abbiamo davanti due opzioni: tornare rapidamente indietro, senza che però si riesca ad attivare una rete di protezione sul Paese e in particolare sui titoli del nostro debito pubblico, o andare avanti e aspirare a diventare il primo Paese industriale d’Europa.”
Come si vede l’obiettivo è molto ambizioso “aspirare a diventare il primo Paese industriale d’Europa”. Ma è un obiettivo senza possibilità di scelta perché l’alternativa, tornare indietro, sarebbe molto pericolosa: il treno infatti, potrebbe scontrarsi con lo spread e gli interessi sui titoli del debito pubblico italiano, ma soprattutto con gli altri temibili concorrenti:
“Tornare indietro è un rischio concreto. Le grandi economie mondiali stanno attrezzandosi per migliorare la loro capacità produttiva e affrontare le sfide del futuro. Gli Stati Uniti hanno varato una ambiziosa riforma fiscale per attrarre investimenti e riportare indietro capitali. La Francia si è rimessa in cammino nel percorso delle riforme strutturali. La Germania beneficia della catena del valore con i suoi paesi confinanti, soprattutto a est, e continua ad avere performance eccezionali in tema di esportazioni. La Cina sta transitando da un’economia forte sulle esportazioni di beni seriali e a basso costo ad una focalizzata su nuove tecnologie e infrastrutture all’avanguardia. Di fronte a questi scenari la scelta è accettare la sfida e rimanere nel gruppo di testa delle grandi economie mondiali o no.”
Ma come si fa a diventare il primo Paese industriale d’Europa? Qui la visione degli industriali si fa più nitida, le idee sono chiare. “Innanzitutto dobbiamo ridurre l’incertezza” tra chi governerà nei prossimi quattro anni, in modo da “attrarre sempre più imprese multinazionali, la cui presenza è cruciale per lo sviluppo e per aprire ancora di più l’Italia ai mercati esteri”, poi dobbiamo tutti condividere la loro Visione senza smontare quanto di buono fatto in questi anni: “Jobs Act, Industria 4.0, riforma fiscale, finanza per la crescita, sostegno alla promozione delle imprese all’estero, riforma della pubblica amministrazione”. Nel momento in cui tutti i partiti giocano a chi offre di più nell’asta elettorale, gli industriali urlano: “più lavoro, più crescita, meno debito pubblico”.
Il documento della Confindustria è fitto di proposte in ogni settore, dalla scuola al lavoro dei giovani, la pubblica amministrazione, la magistratura e la certezza del diritto. Si potrebbe provare a smontarlo tutto. Intanto però possiamo cominciare proprio dal tema del Lavoro cercando di capire rispetto a questo, cosa è apparso nella loro splendida Visione.
La prima missione da svolgere secondo gli industriali, è “raggiungere tra 5 anni un tasso di occupazione più alto di almeno 5 punti con una disoccupazione giovanile che scenda di almeno 15 punti. Il tasso di disoccupazione deve scendere sotto al 7 per cento, creando in un quinquennio almeno 1,8 milioni di posti di lavoro”.
L’impegno come si può vedere è molto ambizioso, più alto di quello promesso a suo tempo da Berlusconi sulla scrivania di Bruno Vespa. È ambizioso soprattutto alla luce del fatto che in questi anni l’impatto della crisi sull’ occupazione è stato drammatico in particolare per i giovani: “tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione è aumentato di 22,5 punti percentuali tra i 15-24enni e di 9,7 punti tra i 25-34enni, contro un aumento medio della disoccupazione di 6,6 punti. Nel 2016 solo un sesto dei 15-24enni era occupato, mentre in Germania lo era il 45,7 per cento, e quasi un terzo nella media dei paesi dell’Eurozona (31,5 per cento).” (la fonte è la stessa Confindustria).
Difronte a questi dati, mi viene da chiedere: ma dov’erano gli industriali quando si concretizzava questa situazione? Quante manovre di politica economica sono state effettuate dai vari governi negli anni passati che con l’obiettivo dichiarato di aiutare gli industriali a ridurre la disoccupazione, hanno sostenuto misure di riduzione delle imposte, riduzione del cuneo fiscale, riduzione delle bollette energetiche, sgravi di IRES, a vantaggio delle imprese?
Quante riforme di politica del lavoro sono state effettuate per rendere flessibile l’uso della forza lavoro, allentare i vincoli contrattuali e rendere attraverso il jobs act, il rapporto di lavoro sempre più precario e ricattabile per la felicità del mondo industriale?
Tutti i governi che si sono succeduti hanno fatto a gara per accontentare gli industriali e il risultato è che migliaia di ragazzi vivono una condizione di precarietà, sopportano lunghi periodi di disoccupazione, la pensione dei genitori diventa l’unica fonte di reddito sicura e l’unica prospettiva che si trovano di fronte è quella di cercare fortuna all’estero, come facevano i loro bisnonni negli anni ’50. Una situazione che ha spostato masse di ricchezza a vantaggio del profitto e che è diventata insopportabile: se il sistema delle imprese non riesce più a garantire la sussistenza per le nuove generazioni, per quale motivo dobbiamo continuare a foraggiarlo?
Ma a noi viene un sospetto. Forse la disoccupazione non è un prodotto accidentale della crisi economica. Forse la Confindustria mente spudoratamente: anche nelle fasi di espansione dell’economia la disoccupazione rimane elevata e non scende mai sotto un dato livello. Neppure lo spostamento di consistenti ricchezze dalle classi più povere al settore dell’impresa, ha giovato all’occupazione e tutte le concessioni fatte dai governi, non ultimo quello di Renzi con le leggi sul lavoro, invece di dare stabilità hanno portato alla condanna della flessibilità a vita.
Non sarà che la Visione della Confindustria sia in contrasto con le leggi interne a questo sistema di produzione che per poter funzionare e garantire il rendimento dei capitali deve consumare un numero sempre maggiore di vittime per la sua sopravvivenza?
In realtà la disoccupazione è necessaria per permettere alle imprese di accrescere e valorizzare i propri investimenti.
È addirittura una delle condizioni primarie per l’esistenza di questo modo di produzione che periodicamente deve creare una massa di lavoratori disponibili per i mutevoli bisogni delle stagioni produttive, un materiale umano sfruttabile sempre pronto e in grado di generare l’opportuna pressione sui lavoratori occupati in modo da limitarne le pretese. Questo significa che quando gli industriali dicono che vogliono ridurre la disoccupazione raccontano balle. La massa di disoccupati è fondamentale per accrescere i loro profitti.
Si legge infatti nella loro relazione che l’emigrazione dei lavoratori italiani che non trovano sbocchi in Italia, verso paesi esteri è per loro un fatto negativo: questa “riduzione della forza lavoro a cui il sistema può attingere abbassa il potenziale di crescita”. Nell’800 durante le crisi la borghesia inglese chiedeva alla polizia di impedire con la forza la partenza dei lavoratori dall’Inghilterra per paura di rimanere poi senza braccia nel momento della ripresa economica.
Quanto più gli operai lavorano, tanto più producono ricchezza per le imprese. Questa crescita della forza produttiva del lavoro se da un lato porta ad incrementare i profitti, dall’altro impoverisce la funzione degli stessi operai che è quella di essere un mezzo per accrescere la ricchezza privata. Essi diventano così sempre più precari e in balia delle mutevoli esigenze delle imprese.
È proprio il meccanismo della produzione e dell’accumulazione capitalistica che adegua questo numero costantemente ai bisogni della sua valorizzazione.
Quanto più alta diventa la forza produttiva del lavoro, tanto più grande sarà la pressione dei disoccupati sugli operai occupati e quindi tanto più precario diventerà il loro salario e la loro condizione di esistenza.
Ma se la Confindustria, nella crisi, non ha altra soluzione che liberarsi di una parte di noi mentre spinge gli altri, quelli che hanno la “fortuna” di rimanere sul posto di lavoro, verso l’abbattimento di ogni limite allo sfruttamento, questo vuol dire che è arrivato il momento di fare altri conti. Se per la società degli industriali tutte le leggi e i provvedimenti presi a loro favore hanno portato benefici e vantaggi solo per chi possiede i mezzi di produzione mentre ha significato precarietà e miseria per tutti i lavoratori, allora è meglio che gli industriali smettano di avere visioni. Lo diciamo in modo chiaro e determinato: la loro Visione della società non ci interessa. Per noi è arrivato il momento di ripensare l’effettiva utilità di questa classe e del suo sistema sociale.
Nel nostro sistema di produzione la ricchezza accumulata dagli industriali assume man mano l’aspetto di ricchezza sociale che si contrappone al fatto che comunque rimane ricchezza privata, appannaggio solo di pochi fortunati. La contraddizione fra questa potenza sociale generale alla quale si eleva questa ricchezza e la disponibilità privata di pochi singoli sulle condizioni sociali della produzione, si va facendo sempre più stridente e porterà prima o poi, alla dissoluzione di questo rapporto, alla trasformazione delle condizioni di produzione privata in produzione sociale, comune, generale. Che gli industriali comincino a farsene una ragione.
F.A.
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