DAZI CONTRO DAZI

L’ultimo G7 si è concluso, ma questa volta, il solito comunicato finale non può nascondere i forti contrasti tra le grandi potenze economiche occidentali. E così son persino volati gli insulti di Trump nei confronti del premier canadese, definito in un pubblico Twitter “disonesto” e “debole”. Dopo più di un anno in cui le dichiarazioni di Trump venivano misurate attentamente dalle borghesie degli altri paesi del G7, sembra proprio che la resa dei conti tra le grandi potenze sia arrivata e si passi alla guerra dei dazi. A scatenare la bagarre finale sono state le dichiarazioni del canadese Justin […]
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L’ultimo G7 si è concluso, ma questa volta, il solito comunicato finale non può nascondere i forti contrasti tra le grandi potenze economiche occidentali. E così son persino volati gli insulti di Trump nei confronti del premier canadese, definito in un pubblico Twitter “disonesto” e “debole”.

Dopo più di un anno in cui le dichiarazioni di Trump venivano misurate attentamente dalle borghesie degli altri paesi del G7, sembra proprio che la resa dei conti tra le grandi potenze sia arrivata e si passi alla guerra dei dazi.

A scatenare la bagarre finale sono state le dichiarazioni del canadese Justin Trudeau, primo ministro del paese occidentale più vicino agli Usa, storicamente, geograficamente e per entità di scambi commerciali. Il Canada vanta un interscambio con gli Usa di 582,4 mld di dollari, secondo solo a quello tra Cina e Usa di 636 mld. Trudeau a conclusione del vertice aveva dichiarato che il Canada, ospitante questo G7, si sentiva tradito dal suo principale partner a seguito dei dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio invocati per ragioni di sicurezza. Pertanto non avrebbe subito passivamente e dal primo di luglio sarebbero partite le ritorsioni sulle merci statunitensi. Le dichiarazione di Trudeau hanno immediatamente fatto infuriare Trump che ha prontamente dato mandato al suo staff di ritirare la firma dal comunicato finale, minacciando quindi altri dazi contro l’industria canadese delle automobili. Immediate sono state le dichiarazioni di sdegno del presidente francese Emmanuel Macron e della Cancelliera tedesca Angela Merkel. I quali probabilmente già avevano mal digerito le parole di Trump del giorno prima, a vertice ancora in corso, che aveva accusato i partner di trattare gli Stati Uniti come un «salvadanaio dal quale tutti rubano».

A questo punto resta da vedere cosa rimarrà in piedi dello stesso G7, che forse sarà ricordato come l’ultimo. In ogni caso sarà il G7 in cui si è affermata definitivamente la nuova politica economica della borghesia Usa, impersonificata dalla figura solo apparentemente caricaturale di Trump.

Con i suoi Twitter, le sue facce, la sua arroganza, Trump detta ormai a tutti gli altri paesi capitalisti le nuove regole sul commercio e lo sviluppo industriale statunitensi. E non lo fa perché matto, ma in quanto, lui stesso grande capitalista, rappresentante gli interessi di varie anime della borghesia Usa.

La sua politica economica si esplica in un mix di azioni da paese imperialista che, dall’alto del suo potere economico e finanziario, nonché militare, cercando nel contempo di blandire le richieste sociali di lavoro, vorrebbe scaricare sui partner commerciali la sovrapproduzione per evitare di crollare su se stesso per effetto della crisi stessa. Crisi che invero sta chiamando gli operai americani e gli operai di tutto il mondo alla consapevolezza che la produzione materiale sotto le leggi del capitale sarebbe anche giunta storicamente al termine.

Invece la borghesia Usa, dopo aver fatto del libero scambio una bandiera, ha recuperato dal passato i vecchi strumenti protezionistici dei dazi per rinvigorire la putrescente grande bestia. Prendiamo, ad esempio, i recenti dazi su acciaio ed alluminio. Con questi gli Usa di Trump “offrono” due possibilità ai grandi gruppi industriali concorrenti. La prima, ed è il caso della Sud Corea, è di portarli a limitare “consenzientemente” le loro vendite sul mercato Usa, ma ciò evidentemente comporta di scaricare la sovrapproduzione su altri mercati che dovranno assorbire quelle mancate vendite con un ulteriore inasprimento della concorrenza nel settore, diminuzione dei prezzi e quindi dei margini di profitto. La seconda possibilità è quella di aumentare i prezzi delle merci in questione per il corrispondente dazio, ma nella crisi di sovrapproduzione significherebbe non poterle più vendere a quei prezzi, e quindi o assorbire il rincaro con una diminuzione dei profitti o cercare altri acquirenti. Lo stesso stesso vicolo cieco per il capitale della prima possibilità.

Naturalmente il capitale industriale americano investito in quei settori risulta protetto dai dazi, in regime di protezionismo potrà tornare a produrre “acciaio americano”, altrimenti avrebbe dovuto prendere altre strade alla ricerca di quei margini di profitto che quei settori non permettevano. Ma è una soluzione momentanea: i dazi richiamano dazi, e si torna daccapo. Una guerra senza fine di continue ritorsioni, con macabri sviluppi nei rapporti internazionali tra nazioni e aree economiche, non solo commerciali.

R.P.

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