Suruwa Jaitek, 18 anni, del Gambia, muore bruciato in una capanna dell’accampamento di San Ferdinando in Calabria. Vivono qui accampati in baracche e tende più di tremila braccianti agricoli. Lavorano alla raccolta di agrumi, senza contratto, per pochi euro al giorno, nelle mani dei caporali.
I furbi, dai giornalisti ai funzionari dello Stato, fissano l’attenzione sull’incendio, sul povero immigrato bruciato, indagano se ci sia dolo o si tratti di una stufetta sfuggita al controllo. Non hanno nessun interesse ad alzare gli occhi e guardare intorno, a chiedersi perché c’è un accampamento del genere da anni, chi sono gli abitanti, e sotto quale padrone sono costretti a lavorare dall’alba al tramonto. Come si chiamano i loro “datori di lavoro” che li sfruttano nell’illegalità. Il prefetto di Reggio Calabria è comparso per televisione ed ha esposto la sua soluzione “l’obiettivo finale è lo smantellamento della baraccopoli” tende ci vogliono, tende. Veramente un servitore dello Stato, un uomo della legalità un po’ strabico. Assente fino a ieri oggi non vede il caporalato, non conosce le condizioni di irregolarità in cui lavorano i braccianti di colore, ma si sa se sono irregolari costano di meno e rendono di più. Veri e propri schiavi nella moderna società italiana che si scopre sempre più legalitaria e perbenista. Ma il Prefetto non vede e non sente, una spiegazione di questo strabismo può essere cercata nel grande peso sociale dei padroni delle coltivazioni nel territorio, nell’influenza che esercitano i manager delle grandi ditte di distribuzione che ogni tanto si fanno vedere in zona. Ogni operaio immigrato morto o ucciso solleva il solito sdegno contro la disumanizzazione del vivere nel ghetto, contro la piaga del caporalato, come piace a loro definirla. Dura 48 ore, due giorni e poi si ricomincia, tutto torna come prima, a meno che una furiosa ribellione dei braccianti neri non li spaventi. Allora forse qualcosa cambierà veramente.
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