La prova più lampante del fallimento del sindacalismo italiano. Concertare, collaborare, sedersi ai tavoli ha prodotto in 17 anni un aumento del salario reale del 1.4%. una nullità.
In Italia il salario è fermo da 17 anni, è aumentato in termini reali dell’1.4%. In Germania, nello stesso periodo l’incremento è stato del 13,6% ed in Francia del 20,4%. Lo dice il rapporto del Censis di pochi giorni fa. Il centro studi ha scelto la parola “cattiveria” per definire il sentimento di oggi degli “italiani”. Come sempre si fa il solito pastone mettendo tutte le classi in un solo calderone e analizzando il tutto con la solita sociologia a buon mercato. In realtà registrare che il salario è rimasto fermo per diciassette anni è registrare la discesa verso la miseria di gente che ha prodotto una ricchezza che invece anno per anno è cresciuta. I profitti industriali, gli utili delle banche, il reddito delle classi superiori è costantemente aumentato. Come è stato possibile, ai padroni in Italia, imporre un prezzo così basso alla forza-lavoro senza suscitare la vera cattiveria, quella della rivolta sociale? È chiaro che ha pesato la crisi del 2008, ha prodotto un sovrappiù di braccia disponibili rispetto alle necessità di una produzione malata di sovrapproduzione. Un tasso di disoccupazione elevato ha premuto sui salari tenendoli fermi. Ma è sufficiente questa giustificazione oggettiva o è solo una scusa per coprire altre responsabilità? E perché non ha funzionato in Germania e in Francia allo stesso modo? La risposta è semplice, nelle fasi discendenti del salario è necessario mettere un freno, opporre una resistenza collettiva, difendere il salario come prezzo della forza-lavoro è assolutamente necessario. Così come nelle fasi di ripresa economica occorre battersi per aumentare questo prezzo. Non abbiamo l’illusione di chissà quali risultati sociali per gli operai possa portare questa lotta salariale, si tratta sempre di vendere le braccia ad un padrone che le userà per arricchirsi, ma difendere il salario è per chi vive di salario una questione di vita o di morte di fame. Uno strumento che gli operai, per primi, si sono dati per difendersi collettivamente sul mercato della forza-lavoro è il sindacato. Ebbene se il salario è fermo da diciassette anni la responsabilità è direttamente e senza giustificazioni di un gruppo dirigente sindacale che in questo dato di fatto può leggere il fallimento della sua funzione sociale. Era scontato, che la crisi e la disoccupazione, l’ingrossarsi dell’esercito industriale di riserva avrebbero pesato sull’esercito attivo per costringerlo alla resa, ma i sindacalisti venduti, più realisti del Re, si sono subito fatti portavoce e azionisti di questa pressione, invece di contrastarla la hanno assecondata e resa ancora più forte. Il mito del lavoro ad ogni costo, del lavoro scambiato con salari da fame ha prodotto una sola cosa nuova disoccupazione e salari da miseria. I sindacalisti collaborazionisti si sono fatti portavoce, in ogni fabbrica, in ogni assemblea, e noi li conosciamo, del ritornello degli industriali e di tutte le classi superiori “accontentatevi di lavorare, non vedete la massa di disoccupati pronti a sostituirvi a minor prezzo? Gli anni sono passati con piattaforme contrattuali piene di fanfaronate sugli investimenti e l’occupazione, sul welfare aziendale ed in fondo qualche decina di euro di aumento per non perdere la faccia. È necessario che la cattiveria degli operai finalmente si manifesti travolga, una dirigenza sindacale fallita e rompa la tregua salariale che ci ha portato alla miseria.
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