Hanno deciso che il rapporto fra votanti e non votanti ha un significato marginale. Ogni volta che si fa un bilancio del risultato elettorale il numero degli astensionisti, di quelli che non vanno a votare è trattato sempre con sufficienza, come un dato tecnico al quale non dare gran che peso. Così è stato anche per le elezioni in Sardegna, dopo il gioco sugli exit poll, che ha dato lavoro ai commentatori politici e a quelli che hanno frenesia di scrivere su dati immaginari, sono arrivati i dati reali e risulta che coloro che si sono recati alle urne sono stati il 53,2%. Il gioco di prestigio si è consumato nel decidere a quale altro dato confrontarlo, alle regionali del 2104, è convenuto a tutti. C’è un aumento dei votanti del 1,5%. Confrontarlo con il dato del l’anno scorso, di marzo del 2018 avrebbe messo in evidenza un rifiuto a partecipare alla farsa elettorale di un blocco ben più numeroso: dal 63,76% all’attuale 53,2% lo scarto è di più di 10 punti in meno, in un anno.
Fra gli astensionisti c’è sempre una fascia che sta al confine, che non ha perso definitivamente il rapporto col sistema elettorale vigente e cerca ogni volta un rappresentante politico, che nello stesso tempo stia seduto in parlamento e lo voglia capovolgere. Questa fascia ha dato nel marzo del 2018 il voto ai 5 stelle facendo scendere l’astensione dal 50 al 40%, il 63,7 era il dato dei votanti. Alla scoperta che anche i 5 stelle sono della stessa risma degli altri, che sono finiti alleati di Salvini, un 10% degli elettori si è di nuovo ritirato nell’astensione, riportandola ai livelli del 2014. La nebbia dei numeri inizia a dipanarsi. Le percentuali di ogni partito va rimisurato sui votanti e se questi sono circa la metà degli aventi diritto al voto, ogni numero di voti va diviso per due, per avere con maggior precisione il livello di rappresentatività di ciascuna forza politica.
Isoliamo ogni partito da alleanze e liste locali, è una scelta che facciamo per capire i movimenti dei partiti di valore nazionale e le classi che tendono a rappresentare ed organizzare. I partiti più rappresentativi sono quattro e stanno più o meno attorno al 10% e cioè rappresentano ognuno, più o meno il 5% dell’elettorato. Il primo, il PD 13,39, il secondo, la Lega al 11,94, il terzo, i 5 stelle al 9 ed infine, Forza Italia al 8.18%. Se dividiamo questi voti sulla base degli aventi diritto risulta chiaro che, su 100 cittadini, il grande capo Salvini, per fare un esempio, ha il sostegno di 5 e qualcosa disgraziati, che sognano di buttare a mare gli emigranti, così, in fila, gli altri.
Che un Salvini sia montato dalla stampa e dalla televisione ormai è assodato, come avversario o capo comunicatore, lo propongono tutti i giorni alla pubblica attenzione, lo fanno diventare un mito. Alla resa dei numeri, dalla Sardegna, viene fuori un capetto di piccolo peso, fra pari. Eppure lo danno al 35%, ma in Abruzzo era già ampiamente sotto questa aspettativa e in Sardegna si deve accontentare di un 11,49 %, dietro addirittura al PD.
Un appunto particolare va fatto per il movimento 5 stelle, il risultato del marzo 2018 con il 42,5% di consensi rendeva manifesta la necessità di una piccola borghesia rovinata dalla crisi, dagli artigiani, ai disoccupati laureati, fino agli operai e lavoratori poveri dislocati in meridione, di tentare, per mezzo del voto, e per mezzo dell’ascesa al governo del Movimento, un rivolgimento del funzionamento del Stato, della macchina politico parlamentare. Sono bastati pochi mesi per scoprire che, se si va al governo, in questo sistema, si finisce per adeguarsi alle necessità del grande capitale, delle grandi banche; per scoprire che per stare al governo occorre fare accordi con gli alleati alla Salvini e gestire le poltrone con lo stesso sistema dei partiti che li hanno preceduti. La scissione è avvenuta brutale: in Sardegna hanno ritirato l’appoggio elettorale ai 5 Stelle il 33,5% dei votanti. Dal 42,5 sono crollati al 9 %. Ora Di Maio può sostenere che non è successo niente, ma dovrebbe andare più cauto: il lato demagogico si è scoperto subito; il lato da perbenista, filo industriale si manifesta ad ogni passo quando si reca in visita nei piani alti dei manager industriali. Ma a chi serve meglio la grande e media industria, la gara con Salvini, è persa in partenza.
Rimane il fatto che il crollo dei 5Stelle, il poco peso dei partiti più grandi che si attestano al 10%, l’astensionismo che si stabilizza al 50% danno un segnale che le classi subalterne, che gli operai, i lavoratori poveri, i piccoli produttori rovinati dalla crisi, la piccola borghesia cittadina che non arriva alla fine del mese, cercano altre strade per farsi ascoltare. La presenza dei 5 stelle è servita per contenere la ribellione nei limiti della scheda elettorale, delle sfuriate televisive. In fondo i padroni intelligenti conoscono l’utilità di questo ruolo. Ora, che si sta scoprendo di che pasta sono fatti, la parola può passare alla lotta aperta, alla strada e alla piazza. I primi sintomi ci sono, in Sardegna con i pastori, in Francia con i gilet gialli.
E.A.
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