Alla manifestazione del 4 maggio a Taranto mancavano gli operai della fabbrica siderurgica. Ancora schiacciati dal ricatto lavoro contro salute non riescono a dire la loro. Sono i primi ad avvelenarsi, sono i primi a dover scendere in campo.
Parlare a nome degli operai e cercare una soluzione per l’ILVA, anche per i movimenti e i collettivi che si interessano della condizione degli operai è difficile. Coniugare l’occupazione dentro l’ILVA e la salvaguardia della salute intorno alla fabbrica sembra un problema irrisolvibile. Si possono fare grandi discorsi sul capitalismo, sbandierare (a ragione) che non ci sono fabbriche sicure, perché queste si reggono sull’accumulazione, sul profitto che non conosce ostacoli. Tutto vero, però in questo modo, se per risolvere l’inquinamento dobbiamo eliminare il capitalismo e finché non sarà fatto, chiudere la fabbrica, abbiamo veramente proposto una strada percorribile per gli operai? Li abbiamo in realtà messi di fronte a due soluzioni, la prima di la venire, la seconda senz’altro inaccettabile per loro. Licenziarsi collettivamente.
Liquidare il capitalismo con una frase fatta senza portare gli operai di fronte ad una possibilità concreta è una operazione che non porta da nessuna parte, se non ad allontanarli ancora di più dalla lotta o dividerli nelle varie fazioni sindacali che propongono ognuna, soluzioni diverse.
Il 4 maggio un corteo ha attraversato Taranto e la cosa che balzava all’occhio era proprio la mancanza degli operai. Certo, per questi ultimi è difficile schierarsi tra le due scelte che a tutt’oggi vengono prospettate. La chiusura come vorrebbero tutti quelli che pensano all’inquinamento o continuare a mantenere aperta la fabbrica sapendo che il padrone non sta facendo nessuna bonifica.
Nella prima ipotesi per gli operai vorrebbe dire essere buttati sulla strada, nella seconda lavorare sapendo di respirare aria avvelenata. Le notizie che da qualche anno vengono date sull’ILVA, si sono preoccupate di più dell’ambiente che della vita all’interno della fabbrica. La condizione degli operai è passata in secondo piano rispetto all’inquinamento che la fabbrica ha creato nel territorio circostante. Viene dato più risalto ai vari comitati di cittadini che accusano la fabbrica di produrre veleni e inquinare.
Quando gli operai non partecipano alle manifestazioni bisognerebbe farsi qualche domanda seria. Forse non trovano in queste rivendicazioni una soluzione al loro problema. Forse non sono rappresentati realmente.
Io penso che la battaglia non dovrebbe essere tra chi vuole chiudere la fabbrica e chi vuole tenerla aperta. La battaglia deve essere improntata ad imporre al padrone una bonifica prima all’interno della fabbrica stessa. Se all’esterno le polveri preoccupano le famiglie, per gli operai c’è invece un contatto diretto. Se le polveri cadono sui balconi delle case, immaginiamo l’effetto che possano fare sugli operai che lavorano all’interno della fabbrica.
Se la bonifica della zona circostante non si può fare perché ormai il territorio è troppo inquinato, la soluzione potrebbe essere la bonifica della fabbrica per salvaguardare gli operai, e la costruzione di nuove strutture abitative in zone più salubri. Costerebbe poi così tanto al padrone avvelenatore dirottare una parte del profitto per costruire una nuova zona abitativa?
Ma il padrone, direttamente e indirettamente coperto dal governo, dai sindacati collaborativi, dalle associazioni più o meno ambientaliste non ne vuole sapere di fare bonifiche. A parole gli impegni sono tanti in realtà gli interventi concreti sono niente. Il ricatto è la sua solita arma. O lavorate a queste condizioni o chiudo e andate a casa.
Quindi le due proposte che rimbalzano continuamente si riducono sostanzialmente o alla chiusura o al mantenimento dello stato attuale con qualche intervento marginale.
Se la lotta degli operai si sposta invece sulla richiesta e controllo diretto della bonifica, saremmo di fronte ad una rivendicazione concreta e reale e non su discussioni a lungo termine che non portano da nessuna parte.
In questo modo saremmo di fronte al fatto che il padrone non ne vuole sapere di usare una parte del profitto per creare un ambiente più vivibile. Le rivendicazioni concrete, sono per gli operai un motivo certamente più comprensibile ed unificante.
La pretesa di lavorare in un ambiente non pericoloso dovrebbe essere una cosa imprescindibile.
Invece nel capitalismo diventa inevitabile che un certo grado di rischio debba essere sempre presente nelle fabbriche che sono oggi strumenti per produrre profitto. Diventa quasi naturale che oltre 1000 persone all’anno per portare la pagnotta a casa debbano morire sul lavoro.
Sarebbe una buona scuola per gli operai, scontrarsi col rifiuto del padrone a mettere in atto misure per rendere i posti di lavoro meno pericolosi. Invece, agli operai della ex ILVA si prospetta sempre il solito ricatto: o la chiusura o la continuazione delle condizioni attuali con la responsabilità di avvelenare anche il paese circostante. Gli operai dell’ILVA sono ottomila, una forza potente che può determinare una svolta sul problema dell’ambiente, partendo dalle condizioni ambientali in fabbrica e di conseguenza coinvolgendo tutto il territorio. Ma è chiaro che in fabbrica nessuno sconto va fatto al padrone, è chiaro che bisogna anche contenere la richiesta di chiudere la fabbrica da parte degli ambientalisti puri, che sulla base di questa richiesta hanno prodotto una rottura con gli operai occupati. I primi avvelenati sono gli operai, i primi che possono mettere un limite all’avvelenamento sono solo loro. Ma c’è un limite a questo possibile movimento: sono i sindacalisti grandi e piccoli, i politici locali e nazionali che hanno fatto da portavoce degli interessi dei padroni ILVA di oggi e di ieri, raccontando che l’adozione di misure di sicurezza ambientale avrebbero portato alla chiusura della fabbrica. Tutte balle per tenere in gabbia gli operai ed isolarli dalla lotta per il risanamento ambientale della fabbrica e del territorio.
S.D.
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