Nelle campagne di Trapani la Guardia di Finanza ha eseguito quattro provvedimenti cautelari di obbligo di dimora (un trattamento di riguardo per i criminali indagati, non certo il carcere!) nei confronti di tre italiani e un rumeno, facenti parte di un’organizzazione dedita allo sfruttamento di braccianti agricoli rumeni in campi propri e impegnata a fornire da diversi anni servizi di manodopera a diverse e importanti aziende agricole del territorio trapanese e non solo, con le accuse di intermediazione illecita di manodopera (cioè caporalato) e sfruttamento del lavoro.
I braccianti venivano retribuiti con tre euro all’ora, per una giornata lavorativa che arrivava fino a 12 ore, dal lunedì al sabato, vessati con insulti razzisti e minacciati con le armi affinché non si recassero in ospedale in caso di infortunio sul lavoro e mentissero sulle sue cause. I finanzieri hanno eseguito la misura cautelare del sequestro preventivo della società cooperativa con la quale l’organizzazione operava. Ora il gip del Tribunale di Marsala ha disposto la nomina di un custode con funzione di amministratore giudiziario dei beni sequestrati, compresa la cooperativa agricola. Poi ci sarà il processo.
Che cosa farà il custode giudiziario nella cornice di legalità in cui è tenuto a operare? Si dovrà attenere, sotto il controllo del giudice, alla legge. Assumerà regolarmente i braccianti, corrisponderà a essi il salario previsto dal contratto, riconoscerà loro i diritti indicati nel contratto stesso. I benpensanti saranno contenti, tutto è a posto.
E invece no, l’assunzione regolare consentirà solo di non fare ricorso ai caporali (almeno temporaneamente) per reperire la forza lavoro, che sarà comunque regolarmente sfruttata come accade a ogni operaio in una normale società capitalista. E i profitti andranno nelle tasche dei titolari della cooperativa, perché lo Stato tutela sempre il patrimonio, anche degli arrestati. Più in là, come è ormai prassi per via della blanda applicazione della legge 199 del 29 ottobre 2016 sul caporalato, i padroni non avranno più l’obbligo di dimora e saranno rimessi in piena libertà, la custodia giudiziaria decadrà, il custode riceverà un buon compenso, pagato per legge dai padroni con una quota del plus valore prodotto dai braccianti ed estorto a questi dal custode per conto dei padroni, i braccianti continueranno a faticare per quattro soldi, con o senza caporale, a essere sfruttati nei campi.
È questo l’andazzo nell’applicazione della legge 199, lo dimostrano due processi a carico di capitalisti agrari e caporali che si sono appena conclusi in Puglia, terra storica del caporalato, con pene simboliche.
Lo scorso aprile la Corte d’assise d’appello di Lecce ha assolto 11 dei 13 imputati condannati in primo grado per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù di numerosi migranti impiegati nella raccolta di angurie e pomodori nelle campagne di Nardò (Le), i cosiddetti “schiavi delle angurie”, e ha condannato solo due caporali stranieri. Si tratta di padroni ortofrutticoli e caporali già condannati in Corte d’assise a luglio 2017 a pene fra 7 e 11 anni di reclusione e poi assolti accogliendo la tesi del collegio difensivo che nel periodo di contestazione dei fatti, tra 2008 e 2011, il reato di riduzione in schiavitù non era previsto dalla legge come tale! Ovviamente, per effetto delle assoluzioni, sono stati annullati anche molti dei risarcimenti disposti in primo grado.
A maggio otto fra padroni e caporali, accusati, con ruoli diversi, di aver sfruttato per anni, nelle province di Bari e Barletta-Andria-Trani, 2.000 braccianti, tutti italiani, in prevalenza donne (costretti a lavorare in vigneti coperti da teloni e ciliegeti per 2,50 euro l’ora fino a 14 ore consecutive, con temperature altissime e senza adeguate provviste di acqua, e a restituire al caporale 2 euro per ogni giornata lavorativa), hanno patteggiato pene ridicole. La pena minima è 1.000 € di multa, pari a 0,50 € per ogni bracciante sfruttato, la pena massima 2 anni di carcere con pena sospesa poiché il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche su reati come associazione a delinquere, truffa ai danni dell’Inps, autoriciclaggio, sfruttamento, estorsione e omissione di soccorso.
Questi processi sono la dimostrazione concreta che la legge sul caporalato è realmente la foglia di fico che copre la “vergogna” dello sfruttamento più selvaggio e non fa alcun male a padroni e caporali. Certo, i braccianti possono sempre appellarsi a quella legge contro la più brutale forma di lavoro nero, quella che li fa sottostare al doppio giogo del caporale e del padrone agrario, ma guai a illudersi! Gli esiti dei processi sono la prova, se ce ne fosse bisogno, che anche per i braccianti è illusorio e pericoloso sperare nelle leggi scritte dai padroni per sfuggire alla legge fondamentale, per quanto non scritta, del capitalismo, quella del massimo profitto.
L.R.
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