La Whirlpool ha deciso di chiudere lo stabilimento di via Argine a Napoli rendendo carta straccia l’accordo dello scorso ottobre dove si impegnava a investire nel settore 250 milioni di euro. In cambio lo stato metteva decine di milioni di euro per aiuti e ammortizzatori sociali per la ristrutturazione.
Dopo sette mesi è saltato tutto. L’azienda, con un freddo comunicato, ha dichiarato di voler dismettere l’impianto di Napoli e, a chiacchiere, di confermare gli investimenti per gli altri siti. Ma anche negli altri siti, tre, le cose non vanno benissimo. A Siena lavorano da anni in pochi, buona parte sono a contratto di solidarietà. A Comunanza, nelle Marche, le linee sono più vecchie di Napoli, pur con investimenti di 70 milioni di fondi Ue. A Varese, per rilanciare lo stabilimento, dovrebbero arrivare nuove produzioni, ma sono promesse.
La chiusura di Napoli è l’avvisaglia di un abbandono generalizzato.
Dopo anni di aiuti statali, stabilimenti regalati, montagne di profitti fatti sul lavoro degli operai, ora i padroni se ne escono con il solito “arrivederci e grazie”. Loro inseguono il profitto e fanno lavorare gli operai, sfruttandoli, solo se questo viene assicurato a un certo livello. Se non avviene, o è possibile fare meglio da altre parti, gli operai vengono scaricati.
Si lavora a ritmi impossibili e per quattro soldi al mese, fino a quando gli operai servono per far guadagnare il padrone. Vengono condannati alla miseria della disoccupazione quando non servono più allo scopo.
E’ un film già visto centinaia di volte. Come centinaia di volte si è assistito alle prese di posizione dei politici e sindacalisti contro le chiusure.
Ora la scelta sarà tra una lenta agonia a spese principalmente degli stessi operai e dello stato, o una drastica chiusura. Il ministro Di Maio ha puntato i piedi e ha affermato che chiuderà i rubinetti degli aiuti, dopo che i padroni Whirpool buona parte se li sono già mangiati. Nella migliore delle ipotesi baratterà il rinvio della chiusura con altra cassa integrazione. I sindacalisti sono disponibili a “trattare”, pur di lasciare aperto lo stabilimento. In parole povere, significa che sono disponibili a far ingoiare qualunque sacrificio agli operai pur di lasciare aperto il sito di Napoli e continuare a fare i “caporali” a spese degli operai.
Senza un’organizzazione propria, gli operai sono destinati a soccombere.
La lotta a Napoli è iniziata a stabilimento chiuso e a produzione ferma. In sette mesi c’erano già i segnali di quello che stava per succedere, ma si è aspettata la chiusura. Negli altri stabilimenti i sindacati hanno proclamato scioperi di facciata, di pochi minuti, per “solidarietà”. Scioperi inutili che non muovono la realtà di una virgola.
Queste situazioni dimostrano pienamente che l’attuale sistema economico agli operai non ha più nulla da offrire, neanche un posto da sfruttati. Dimostra che è arrivato di nuovo il tempo di ragionare su una nuova organizzazione del modo di produrre le cose che servono agli uomini, non più basato sulla schiavitù moderna degli operai e di cominciare a muoversi per eliminare definitivamente il sistema dei padroni.
Dimostrano anche però, che se gli operai non si organizzano in modo indipendente con gli elementi migliori della propria classe alla testa dell’organizzazione, saranno sempre sotto il giogo del padrone e dei suoi funzionari della politica e del sindacato, sempre di più spinti verso la miseria.
F. R.
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