Arcelor Mittal tira dritto, sindacati e politici fanno il suo gioco. Gli operai contino sulle proprie forze per salvarsi e riscattarsi
I sindacalisti hanno giurato che non accetteranno mai la cassa integrazione per i 1.400 operai dell’Arcelor Mittal di Taranto. Dalla Triplice all’Usb, tutti si sono sperticati a prometterne il rifiuto più accanito. I politici di ogni schieramento hanno fatto altrettanto, esprimendo un “no” secco contro la richiesta di cassa integrazione della multinazionale franco-indiana.
Eppure l’Arcelor Mittal senza tanti proclami ha confermato tutto, la cassa durerà fino a ottobre, almeno sulla carta, e con la sicumera di chi ha le spalle coperte ha illustrato alle rappresentanze sindacali della fabbrica tarantina dettagli e motivazioni della decisione presa. Anzi ha messo le mani avanti e ventilato una possibile proroga. Infatti in un documento consegnato ai sindacati si legge che “allo stato è ipotizzabile una ripresa del mercato e della domanda a valle di detto periodo, fatta salva la verifica della necessità di eventuale proroga ai sensi della vigente normativa”.
Provocando non altro che la compassata reazione del ministro dello Sviluppo economico, Di Maio. Qualche mese fa aveva esultato davanti alla firma dell’accordo tra azienda e sindacati per il reintegro di 10.700 operai ex Ilva (dei quali 8.200 a Taranto), con l’espulsione solo a Taranto di 1.600 operai dal ciclo produttivo (impresa che nemmeno ai Riva era riuscita così bene), adesso blatera di essere stufo di aziende che firmano gli accordi e poi non vi tengono fede (riferendosi anche al caso Whirlpool, dove si sta svolgendo la stessa pantomima fatta di paroloni, viaggi a Roma e tavoli concertativi a danno degli operai). Ha un bel dire Di Maio che “la prossima settimana ci vedremo, è già fissato un tavolo, devono tenere fede agli accordi”. Ha un bel dire anche il Pd con un’interrogazione che pungola Di Maio a rispettare gli impegni e convocare le verifiche trimestrali dell’accordo di settembre 2018. Arcelor Mittal ha fatto il suo passo e non saranno paroloni e tavoli a farla recedere da esso.
Ma, se si fa attenzione, si osserva che i giuramenti e le promesse di sindacalisti e politici non sono però degli ultimi giorni, ma delle scorse settimane, accompagnati anche da richieste di serietà e rispetto dei patti, invocazioni di coerenza, definizione della scelta dell’azienda come “grave e irresponsabile”, appelli all’azienda a fare un passo indietro, pacche sulle spalle, moine, blandizie. Tutto il repertorio usato da sempre da sindacalisti e politici in casi del genere. Poi quasi più nulla, borbottii, poche parole… La solita presa in giro! Chi ha voluto capire ha compreso che i paroloni gridati da questi maneggioni esperti del sindacalismo e della politica servivano solo e unicamente a tenere quieti gli operai, a dirottare rabbia e malcontento nelle secche della delega decisionale ai tavoli concertativi romani. Infatti né sindacalisti né politici hanno detto agli operai dell’Arcelor Mittal di Taranto di scendere in piazza e di occupare lo stabilimento, nessuno ha lanciato un segnale di mobilitazione e lotta. Nulla di nulla.
Sindacalisti e politici sanno bene che gli operai oggi sono deboli e disorganizzati, dopo la batosta dei 1.600 buttati fuori chi si arrischia a farsi avanti? Tutti temono di finire nella lista dei 1.400 prossimi cassintegrati perché tutti sanno che saranno i possibili futuri licenziati. Lo sanno bene i sindacalisti e politici, farabutti di lungo corso, che giocano le loro “battaglie” concertative sulla pelle di chi teme di andare a finire in mezzo a una strada, lui e la sua famiglia, senza nessuno che poi lo tiri via e lo salvi. Un esempio per tutti: Rocco Palombella, segretario nazionale della Uilm, uno che ha costruito la propria carriera nei lungi anni in cui ha fatto il sindacalista all’Italsider/Ilva di Taranto, quando, ogni volta che un operaio si infortunava o moriva, impediva agli operai di fare sciopero, spompava ogni tentativo di lotta, rabboniva tutti a rassegnarsi e stare zitti.
Ora sembra che il problema sia un altro, il timore che la multinazionale, dopo la revoca dell’immunità penale (voluta dal M5S, esibendo sei ministri a Taranto, per non disperdere ulteriormente il consenso elettorale ricevuto nella città jonica alle politiche di marzo 2018 ventilando più volte l’ipotesi di chiudere lo stabilimento), invece di rilanciare l’ex Ilva chiuda baracca e burattini e se ne vada via. Per sindacalisti e politici un disimpegno o un ridimensionamento eccessivo della fabbrica sarebbe un brutto colpo, non avrebbero più dove mettere le mani e pasticciare e dare a intendere di avere un ruolo sociale e politico importante e irrinunciabile per tutti! Sarebbe un dimostrare agli operai che non valgono nulla, che sono inutili e quindi possono essere superati.
L.R.
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