Dopo mesi di chiacchiere la sceneggiata è finita. La multinazionale non va via, in cambio ottiene un forte taglio alla manodopera salariata e altri favori del governo
Alla fine il “gioco” di
ArcelorMittal si è rivelato per quello che è stato fin dall’inizio:
un bluff, una finzione, un inganno. Una trappola dalla quale ricavare
i massimi vantaggi e nella quale far cadere il maggior numero
possibile di operai, con la complicità di quanti – ciascuno a
proprio modo e secondo le proprie capacità – si sono genuflessi
davanti ai padroni della multinazionale franco-indiana per
supplicarli di non andare via da Taranto.
ArcelorMittal non ha
mai pensato seriamente di andare via da Taranto, anzi ha voluto e
vuole rimanerci, ma solo alle proprie condizioni. Ha acquisito l’ex
Ilva e in particolare lo stabilimento siderurgico tarantino in
affitto temporaneo, per poi diventarne definitiva proprietaria, con
il fine di farne uno dei punti di forza della produzione di acciaio
che realizza a livello mondiale, ma, beninteso, a patto di avere
piena libertà sia nella gestione della forza lavoro operaia sia
sugli effetti dell’attività produttiva sull’ambiente, dentro e
fuori la fabbrica. Una libertà pienamente riconosciuta dall’accordo
firmato il 6 settembre 2018, con la regia del governo M5S-Lega e
l’avallo di Cgil, Cisl, Uil e Usb, che portò all’espulsione dal
ciclo produttivo di 6.000 operai, dei quali 2.600 a Taranto, in
particolare di tutti coloro che si erano distinti nel lottare contro
le pessime condizioni di lavoro in fabbrica e il disastro ambientale
da essa causata.
Quando tale libertà d’azione ha cominciato a
incrinarsi (con l’eliminazione dello scudo penale, un tentativo con
il quale l’M5S cercava di rialzare le proprie quotazioni
elettorali) e le restrizioni alla mano libera su operai e ambiente si
sono combinate con la crisi di mercato dell’acciaio e la necessità
da un lato di diminuire la produzione e dall’altro di rendere il
proprio acciaio più competitivo aumentando i livelli di
sfruttamento, allora ArcelorMittal non ha esitato a forzare la mano:
l’atto di citazione davanti al Tribunale di
Milano verso i commissari straordinari dell’Ilva, nel quale la
multinazionale ha ufficializzato la volontà di recedere dal
contratto di Ilva adducendo una serie di ragioni, in primo luogo
l’abolizione dell’immunità penale. Un atto di forza al quale è
seguito il ricorso cautelare urgente di Ilva in amministrazione
straordinaria per impedire l’uscita della multinazionale.
Com’era
prevedibile, il giudice ha concesso tre rinvii (l’ultimo al 6
marzo) dell’udienza nella procedura cautelare promossa dai
commissari straordinari dell’Ilva contro ArcelorMittal. Le due
parti hanno infatti raggiunto un’intesa di massima che prevede la
modifica del contratto di affitto finalizzato all’acquisto del
complesso aziendale ex Ilva, dimezzandolo, rispetto agli accordi
iniziali, da 15 a 7,5 milioni di euro, l’entrata dello Stato nella
società con l’afflusso di nuovi finanziamenti, la fuoriuscita di
migliaia di operai, i cosiddetti esuberi (ArcelorMittal aveva chiesto
di mandare via 4.700 operai, ora il governo è disposto a trattare su
3.000-3.500). I legali dei Mittal e l’ad Morselli hanno confermato
che ArcelorMittal vuole restare a Taranto, a patto che il governo
accetti in maniera definitiva gli esuberi.
L’intesa di
massima, preludio di un accordo definitivo e dell’annullamento del
processo, ha “rischiarato e disteso” gli animi. Tutti hanno già
vinto, perderanno solo gli operai.
Ha vinto in primo luogo
ArcelorMittal che ha imposto tutte le sue condizioni minacciando per
finta di abbandonare Taranto. Ha vinto il governo Pd-M5S-Italia
Viva-Liberi e Uguali, i cui obiettivi, per voce del primo ministro
Conte, sono “fare del polo siderurgico di Taranto un leader
europeo dell’acciaio verde, con il passaggio dal carbone al gas, e
arrivare a un nuovo rapporto contrattuale che preveda un investimento
pubblico nella società che gestisce l’impianto, in modo da
perseguire una politica industriale capace di coniugare crescita,
ambiente, innovazione e occupazione. Tutto ciò sul presupposto che
ArcelorMittal revochi il proposito di recesso e rinunci all’azione
civile intrapresa presso il Tribunale di Milano”.
Ha vinto
l’opposizione, che si è sempre opposta all’eliminazione dello
scudo penale e adesso plaude alla sua reintroduzione come frutto
della propria pressione politica sul governo.
Hanno vinto i
sindacati perché stanno riuscendo ad assolvere ai propri compiti
“istituzionali” per i quali i loro responsabili a vario livello
vengono ben pagati, cioè portare avanti una ferma politica
antioperaia al servizio dei padroni di turno. Infatti hanno lanciato
la parola d’ordine “nessun esubero”, ma nei fatti non hanno
mosso un dito per organizzare una seria lotta operaia, limitando a
dichiararsi “preoccupati” e “perplessi” per la situazione in
fabbrica. Quando governo e ArcelorMittal firmeranno l’accordo
definitivo e poi chiameranno i sindacati, finora lasciati in
disparte, a ratificarlo, questi faranno baruffe, smuoveranno l’aria,
grideranno allo scandalo, ma poi lasceranno gli operai soli, come
stanno facendo alla Whirpool e altrove. Sputtanati come sono, uno
sputtanamento in più o in meno che differenza fa? A Taranto prima
hanno approvato la cassa integrazione per 2.600 operai dell’Ilva
con l’accordo del 6 settembre 2018, poi hanno accettato la cassa
integrazione per altri 1.400 operai di ArcelorMittal dal luglio 2019,
ora perché dovrebbero avere paura di mandare in cassa integrazione
altri 3.000 o più operai?
Di questo passo, solo gli operai
perderanno. Il governo presenterà come una vittoria l’essere
riuscito a limitare le pretese di ArcelorMittal e a ridurre il numero
degli esuberi. I sindacati tuoneranno parole vuote contro
multinazionale e governo, senza concludere nulla nell’interesse
degli operai. E allora? Per gli operai sperare ancora una volta,
ognuno per proprio conto, di non essere nella lista dei nuovi esuberi
non è una strategia vincente: oggi tocca ad alcune migliaia, domani
toccherà ad altre migliaia, è già accaduto in passato; prima o
poi, se si è inerti, si cade nella dura rete della cassa
integrazione, del licenziamento di fatto. Non sarebbe meglio lottare
per se stessi, seriamente e in maniera autonoma dai sindacati,
occupare la fabbrica, dimostrare la propria forza? A questo punto che
cosa c’è da perdere?
L.R.
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