Avrebbero introdotto corpi estranei in buste di insalata di un’azienda riminese per contrasti con i titolari legati a motivi salariali. A essi viene rimproverata la mancanza di fedeltà e lealtà. Ma quando mai i padroni sono fedeli e leali verso gli operai?
25 operai, di cui 24 donne, sono stati rinviati a giudizio nei giorni scorsi dal Gip del Tribunale di Rimini perché accusati di avere messo in atto, dal marzo 2015 ai primi di dicembre 2016, azioni continue di sabotaggio ai danni dell’azienda alimentare riminese per la quale lavoravano, che confeziona insalate in busta, già mondate e lavate e pronte per il consumo, per la grande distribuzione italiana. La notizia è passata sotto silenzio, quasi inosservata, probabilmente per non dare importanza a dove può arrivare, in certe circostanze, la rabbia repressa contro un padrone. La prima udienza del processo è stata fissata per il prossimo 13 maggio.
L’accusa a carico delle operaie è volutamente circostanziata. Stando a quanto si legge, pare che “nelle insalate in busta, destinate ai migliori supermercati, le dipendenti infedeli avrebbero deliberatamente inserito le peggiori schifezze: schegge di legno, pezzi di plastica, di cartone e di metallo, fili di ferro, biglie, mozziconi di sigaretta, ciocche di capelli, ma anche animaletti come lumache, cavallette, falene, rane, tagliaforbici, bruchi, coleotteri, gechi, ragni, vermi e millepiedi”. Le operaie avrebbero sabotato la produzione “gettando i corpi estranei nei macchinari per il lavaggio e il taglio delle verdure o prelevando manualmente gli scarti eliminati dalle selezionatrici ottiche per poi infilarli tra i prodotti scelti per la distribuzione”. Un’accusa che ha lo scopo di sollevare lo sdegno dei “consumatori”. Però, finché gli stessi consumatori sono avvelenati veramente dai produttori di alimenti che usano in serie materie prime marce, allora è tutto regolare!
L’installazione (autorizzata dal Pm) di apposite microcamere nascoste, all’interno della ditta e lungo la catena di produzione, si legge, “ha permesso di svelare la malafede delle lavoratrici”. Inoltre, sempre a quanto si legge, pare che “alcune dipendenti sarebbero state filmate mentre prelevavano alimenti e succhi di frutta per portarli a casa senza autorizzazione facendo così scattare anche il reato di furto”. Il furto di un succo di frutta e di un po’ di insalata rende ridicola la stessa parola “furto”!
Per tutte le 25 operaie, che erano state licenziate per giusta causa e denunciate, l’accusa formale è “quella a vario titolo di adulterazione di cibi, furto di piatti pronti, succhi di frutta, verdure e turbativa dell’esercizio dell’industria e del commercio”.
Leggendo le scarse notizie disponibili non si comprende a prima vista la ragione di tale presunto sabotaggio. Nessun operaio a cuor leggero sabota la produzione. E hanno un bel parlare, gli estensori delle modeste note sull’argomento, di “un atteggiamento che, nelle intenzioni delle lavoratrici ribelli, avrebbe dovuto danneggiare l’incolpevole azienda del riminese per la quale lavoravano”. Detto così, come si può giustificare un atteggiamento “ribelle”, quasi fine a se stesso, verso un’azienda “incolpevole”?
Tuttavia qualcosa traspare. In una nota si legge: “I protagonisti della vicenda – incastrati da 64 telecamere di sorveglianza montate a spese della società proprio per venire a capo della questione – avrebbero agito in maniera sistematica, per danneggiare l’impresa romagnola forse per motivi legati a questioni lavorative e salariali. A far scattare l’allarme, alla fine dello scorso anno, i supermercati della zona allertati dalle segnalazioni dei consumatori dell’insalata in busta”. E in un’altra: “All’origine del sabotaggio, forse, contrasti con i titolari legati a motivi salariali”.
Ah, ecco! …motivi legati a questioni lavorative e salariali…, … contrasti con i titolari legati a motivi salariali… Sappiamo che il sabotaggio non è la forma di lotta che gli operai preferiscono utilizzare, anche perché le moderne forme di tracciabilità dei processi produttivi permettono di risalire rapidamente ai sabotatori e di identificarli facilmente, in modo che siano puniti. Ma, evidentemente, per arrivare, gli operai dell’azienda romagnola, a essere tanto esasperati da sabotare la produzione in maniera così manifesta, ragioni ne avranno avute, e proprio legate alle appena accennate “questioni lavorative e salariali”.
Colpisce, poi, che nelle note disponibili si trova sempre la stessa parola: infedeli. Gli operai vengono non solo accusati ma anche tacciati di essere stati “infedeli” verso l’azienda per la quale lavoravano. Che cosa significa la parola “infedele”? Un qualsiasi dizionario riporta: “Colpevole di un comportamento contrario a un impegno di fedeltà precedentemente assunto”. E andando a scavare nell’etimologia della parola “infedele” si comprende che deriva dalla parola latina “fidelitas” (fedeltà, lealtà), la quale a sua volta viene da “fides”, che significa “fiducia”. Ebbene, gli operai, quando vengono assunti, formalmente o in nero, da un padrone, firmano forse un impegno di fedeltà e lealtà verso lui e il rispetto dei suoi interessi? In base a quale principio dovrebbero nutrire fiducia in lui? Se accettano di vendergli la forza delle proprie braccia lo fanno solo per avere in cambio un salario per sopravvivere, altrimenti farebbero volentieri a meno di faticare per lui e farsi sfruttare.
L’esperienza storica della classe operaia e quella particolare, diretta, viva e quotidiana di ciascun operaio dimostrano che un padrone acquista forza-lavoro al prezzo più basso possibile e la spreme quanto più gli è possibile per ricavarne il massimo profitto. E quando quella forza-lavoro, quegli operai che prima ha sfruttato senza limiti, non gli serve più, la licenzia, la butta in mezzo a una strada senza farsene scrupolo, senza mostrare un briciolo di fedeltà e tanto meno di lealtà verso gli operai. Perciò quale fedeltà, quale lealtà si va pretendendo dagli operai? Quella del cane verso chi lo porta al guinzaglio? Quella del giornalista che mangia alla greppia del padrone di turno?
L.R.
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