Lavorare ai tempi del coronavirus in Lombardia. Cronache di vita nei reparti di produzione, nelle mense e negli spogliatoi
Caro Operai Contro.
l’ordinanza del governo Conte bis, di mantenere almeno un metro di distanza fra le persone, come prevenzione al coronavirus, non viene rispettata prima di tutto dai padroni nei confronti di tutti gli operai, che sul posto di lavoro, sono “incatenati” dall’organizzazione del lavoro, a produrre in distanze ravvicinate, svolgere mansioni o passarsi “il pezzo” in quel poco tempo, che comunque basterebbe ad inalare le eventuali “goccioline infette” e trasmettere il contagio. Così, come finora ci hanno raccontato che avviene il contagio.
Ma finora nessuno parla di chiudere tutte quelle attività, dove non ricorrono le distanze di sicurezza per gli operai, e le norme di prevenzione che lo richiederebbero. Nessuno finora osa dire stop alla produzione e il padrone paghi il salario pieno agli operai, attingendo ai profitti accumulati.
Alla luce di questo, risultano semplicemente approssimative e insufficienti, le misure che prendono le aziende, di cui vediamo alcuni esempi in Lombardia.
Cominciando dal settore alimentare della Star in Brianza, dove l’azienda ha risolto il problema della contaminazione al coronavirus, piazzando all’ingresso 2 dispenser luccicanti di gel igienizzante.
Alla Leonardo-Finmeccanica di Nerviano (Mi), oltre mille dipendenti del settore micro elettronica Spazio e Militare, l’azienda ha fatto sottoscrivere a tutto il personale, un autocertificazione di non essere stati recentemente in contatto con persone di ritorno dalla Cina o provenienti dalle zone rosse.
Alla International Paper di Bellusco (Mb), produce imballi in cartone ondulato, l’azienda ha diradato i posti a sedere in mensa, ed ha messo nei gabinetti un comunicato, dove si invitano i dipendenti a lavarsi le mani all’entrata e all’uscita.
Alla St Microelectronics di Agrate Brianza, 8 mila dipendenti con gli appalti produttrice di componenti elettronici, hanno istituito più turni mensa per diradarne le presenze, a chi ne fa richiesta in alternativa, viene consegnato il pranzo al sacco da consumare isolatamente.
Alla Candy di Brugherio (Mi) 400 dipendenti, la mensa è stata sostituita dai ticket e ridotto l’orario di lavoro alcuni giorni la settimana, non è ancora chiaro chi e come verranno pagate le ore non lavorate.
Alla Abb di Dalmine (Bg) all’ingresso viene misurata la febbre a tutti. In altre aziende della bergamasca e della Brianza, parte in questi giorni il diradamento dei posti a sedere in mensa, ed il cambio turno viene spostato almeno mezzora dopo quello che smonta, per evitare i contatti negli spogliatoi.
Mentre il centro studi di Confindustria denuncia, “ 2 imprese su 3 già danneggiate dal coronavirus”, nessun allarme, nessuna voce si leva sui danni a carico degli operai, riguardo la propria incolumità fisica, il taglio dei salari per cassa integrazione e riduzione d’orario, le ondate di licenziamenti silenziosi, dovuti (per ora) alla mancata riconferma dei contratti stagionali e “atipici”, nei settori (sempre secondo Confindustria), più colpiti: “Alloggi e ristorazione; Trasporti e magazzinaggio; Noleggio, agenzie viaggio e supporto alle imprese; Commercio all’ingrosso e al dettaglio; Informazioni e comunicazione; Attività professionali; Attività manifatturiere; Costruzioni”.
Il coronavirus così gestito, agisce anche come pericoloso collante interclassista, in nome dell’unità nazionale a difesa del sistema dei profitti.
Un sindacalismo operaio dovrebbe a questo punto intervenire pesantemente, prima di tutto nelle fabbriche con una capillare denuncia, di come padroni e loro governo cavalcano il coronavirus, facendo mangiare la polvere agli operai.
Poi con scioperi e proteste,opporsi all’uso dalla parte dei padroni del coronavirus, impedire che produca licenziamenti e spinga ancora più in basso la condizione operaia. Rivendicare il blocco delle produzioni a rischio contaminazione, il salario pieno a carico dei padroni, a integrazione della cassa integrazione, e totalmente a carico dei padroni qualora, per riduzione d’orario o qualsiasi altro motivo non vi sia la cassa integrazione. E strano ma è così, ogni classe si difende dal contagio come può e come vuole, anche gli operai hanno bisogno di difendersi collettivamente, sono quelli che rischiano di più costretti a produrre sotto gli stessi limiti di sicurezza che l’ordinanza impone.
Saluti Oxervator
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