Due storie diverse: nella cittadina lombarda chiusura totale di ogni attività; nella fabbrica di Taranto omertà sui contagi per non rallentare l’attività produttiva e non chiudere nemmeno i reparti interessati.
Tre
operai positivi al coronavirus nello stabilimento siderurgico
ArcelorMittal di Taranto in poco più di due settimane! Quanti altri
siano stati contagiati si saprà nei prossimi giorni. Forse, perché
nulla garantisce che dalla fabbrica escano informazioni chiare e
dettagliate sulla reale diffusione della malattia fra gli operai. Una
cappa di omertà è calata sulla fabbrica tarantina per non
rallentare l’attività, per non chiudere neanche i reparti
interessati, per continuare a produrre come se nulla fosse accaduto,
con l’aperto appoggio delle istituzioni e la tacita complicità dei
sindacati. Tutto il contrario di quanto è accaduto a fine febbraio a
Codogno e a Vo’ Euganeo, paesi nei quali la scoperta di pochi casi
portò subito alla istituzione della zona rossa. Perché, dopo il
primo caso, non è stata istituita una zona rossa anche attorno alla
fabbrica tarantina? Sarebbe stato facile, molto più semplice che
recintare e chiudere un intero paese o territorio. Eppure non si è
fatto nulla, sin dall’inizio dell’allarme Coronavirus, e ancora
dopo tre casi, in due diversi reparti, gli operai continuano a
produrre come hanno sempre prodotto in questi mesi di grave e mortale
emergenza sanitaria.
Agli
ingressi della fabbrica gli operai avevano già da tempo espresso le
loro paure. Ma ArcelorMittal ha tirato dritto e imposto i suoi
interessi: gli operai che le servivano li ha spediti sulle linee, gli
altri in cassa integrazione, e lo ha fatto con l’appoggio sia del
prefetto di Taranto, che ha permesso prima l’impiego fino a 3.500
operai diretti e 2.000 dell’indotto e poi la commercializzazione
dell’acciaio prodotto, sia dei sindacati, che, dopo aver cianciato
a vuoto, hanno preso atto. Prima della scoperta del primo caso
positivo, la sezione di Taranto di Isde-Medici per l’Ambiente, era
intervenuta ufficialmente affermando chiaro e tondo che “la
scelta di continuare la produzione nello stabilimento siderurgico di
Taranto è scellerata, insensata e inaccettabile. Alla luce di quanto
sta accadendo in Lombardia e nelle regioni limitrofe del Nord sarebbe
stato doveroso, anziché pensare alla produzione, proteggere la
salute dei cittadini, dei lavoratori, mettendo in opera i massimi
sistemi di precauzione. La logica e la prudenza avrebbero suggerito
l’interruzione del ciclo produttivo, invece 3.500 lavoratori, cui
si sommano 2.000 lavoratori dell’indotto, andranno ad affollare la
fabbrica più inquinante d’Europa, dove le persone arrivano e si
spostano in autobus. Sarà improbabile che possano essere mantenute
quelle distanze di sicurezza”.
Ma né padroni né sindacati hanno voluto dare loro ascolto.
Due
giorni dopo tali affermazioni un operaio addetto agli impianti di
ossigeno (reparto PGT) è stato accertato positivo al coronavirus e
gli è stata diagnosticata una polmonite interstiziale. Si sapeva già
che non sarebbe stato l’unico operaio contagiato, perché il
protocollo sanitario non è stato correttamente applicato. Per stessa
ammissione aziendale, un numero non ben definito di operai, sia
diretti sia dell’appalto, nei giorni precedenti aveva avuto
contatti con l’operaio risultato positivo. Ma sono stati sottoposti
a quarantena solo gli operai in turno con il contagiato, e non quelli
che di fatto erano stati a contatto con lui prima. Così pochi giorni
dopo è stato accertato positivo un altro operaio dello stesso
reparto, uno dei pochi messi in quarantena domiciliare dopo il primo
caso. Ma il contagio non è stato contenuto allo stesso reparto.
Infatti alcuni giorni dopo ecco il terzo caso, un operaio addetto ai
convertitori dell’Acciaieria 2. E anche questa volta sono stati
posti in quarantena domiciliare solo alcuni operai del suo turno, la
chiusura del reparto non è mai stata presa in considerazione.
Ancora
una volta lo stabilimento tarantino ex Ilva ha fatto da battistrada
per i capitalisti industriali italiani: i suoi padroni hanno
continuato a produrre durante tutta l’emergenza, hanno comandato
gli operai a lavorare senza scrupolo e con disprezzo della loro
salute e vita. Da questa specifica vicenda è emerso ancora una volta
con chiarezza chi comanda realmente nel capitalismo: i padroni
decidono e impongono, il governo ratifica ed esegue, gli altri o
appoggiano solertemente o, come oggi gli epidemiologi, sia pur a
malincuore, accettano e si adeguano. C’è una terza possibilità,
una ribellione organizzata di massa che ponga fine a questo
strapotere. Per quanto difficile, è una possibilità che esiste e su
cui lavorare.
L.R.
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