Un’azienda di Bergamo del gruppo Mazza ha fatto il test a tutti i dipendenti. La fabbrica non ha mai chiuso durante l’emergenza, tutti i dispositivi individuali di sicurezza sono stati adottati ma non è servito a nulla: su 295 i positivi sono 50
In un’azienda di Bergamo del gruppo Mazza con 295 dipendenti, il padrone, “intraprendente e attento” alla salute dei suoi operai, ha acquistato, agli inizi di aprile, una partita di tamponi e ha fatto fare il test a tutti i dipendenti. Su 295, 50 sono risultati positivi. Nello stabilimento che produce materiali plastici, che non ha mai chiuso nel periodo dell’emergenza, «nella casistica aziendale non si era andati oltre alcuni casi di influenza dei lavoratori» .
L’amministratore delegato della ditta dice che fin dal 23 febbraio il Gruppo Mazza si è organizzato contro il virus: «Abbiamo bloccato le trasferte in Italia e all’estero, vietato l’accesso a clienti e fornitori, regolamentato il carico-scarico delle merci dando in dotazione dispositivi di protezione individuale e informando tutti i dipendenti sulle indicazioni socio sanitarie da seguire in azienda e anche in casa. Queste ed altre misure aggiuntive si sono rafforzate ed implementate con il passare del tempo» .
Quindi abbiamo l’esempio di un’azienda che pur avendo messo in campo subito tutti gli accorgimenti per evitare il contagio degli operai, si è trovata a circa due mesi di distanza dall’attivazione di queste misure con 50 contagiati su 295, contagiati che fino a quel momento non sapevano neanche di esserlo. Questi 50 operai hanno portato in giro il virus contagiando moglie, figli, genitori, nonni, conoscenti. Questo è quello che succederà negli stabilimenti che si preparano a riaprire.
Alla FCA, che fa sempre da battistrada per tutto il padronato, si è firmato un accordo tra azienda e sindacati tutti, compresa questa volta anche la FIOM, per “un rientro in sicurezza” negli stabilimenti con l’avallo “scientifico” del virologo Burioni, quello reso famoso dalla sua affermazione alla trasmissione “Che tempo che fa” di Fazio del 2 febbraio, dove aveva dichiarato: “In Italia in questo momento il rischio di contrarre il coronavirus è zero”. Dichiarazione fatta poco prima dell’esplosione della pandemia nelle regioni del nord, con il virus che già da oltre un mese viaggiava, ignorato, in Italia.
In realtà, e il caso di Bergamo ne è la dimostrazione, non esistono misure adeguate per contrastare il contagio negli stabilimenti. Il fatto che migliaia di persone si ammassino in uno spazio ristretto, debbano viaggiare insieme ad altri per arrivarci, siano costretti dalle postazioni di lavoro rigide delle produzioni moderne a non potersi distanziare più di tanto dai compagni, rappresenta la situazione adatta per far proliferare i contagi. La catastrofe delle province lombarde a maggior concentrazione industriale lo dimostra. Dove gli operai sono stati costretti al lavoro, il contagio non ha avuto limiti.
Come si è capito che la maggior parte dei morti non sono avvenuti per il coranavirus, ma per l’insufficienza delle strutture medico sanitarie. Basta raffrontare i dati sulla mortalità in Germania e in Italia per rendersene conto. Secondo i dati ufficiali, al 19 aprile, in Italia abbiamo 178.972 contagiati, mentre in Germania ne abbiamo 145.184, appena 33.788 in meno dell’Italia. I morti in Italia, però, sono 23.660 (e sappiamo che questo dato è enormemente sottostimato) mentre in Germania sono 4.586. Quindi in Italia, con quasi lo stesso numero di contagiati, abbiamo ben 19.074 morti in più, in pratica, quasi 5 volte il numero dei decessi tedeschi. Di fronte a questa enorme differenza non è mancato il tentativo di mettere una foglia di fico da parte dei soliti “esperti” prezzolati. Fra questi brilla la virologa Maria Rita Gismondo, che ha ipotizzato, senza alcuna evidenza scientifica, una variante più virulenta del virus in Italia (Il Fatto Quotidiano del 22 marzo). Impietosamente basta considerare un altro dato per comprendere le vere cause della situazione. In Italia, i contagiati che sono stati ricoverati sono 47.055, in Germania 88.000, quasi il doppio, pur avendo meno contagiati. Sono le complicazioni del contagio quelle che principalmente uccidono senza una adeguata assistenza sanitaria.
Non a caso tra quelli che comandano in questa società, i morti sono pochissimi. Perché? Perché per loro le cure iniziano subito e hanno a disposizione le strutture sanitarie migliori. Mentre migliaia di pensionati poveri, di operai, di diseredati, morivano nelle loro case chiedendo disperatamente un aiuto che non arrivava, o arrivava troppo tardi, i ricchi come quel “capitano coraggioso” del cavaliere, si rintanavano in un rifugio di lusso, e i loro politici, i loro giornalisti, i capi dei sindacati filoaziendali che dovevano rimanere sul campo per gestire la situazione, se si ammalavano venivano immediatamente soccorsi e curati nelle migliori strutture. Il Fatto Quotidiano del 17 aprile fa solo un elenco a caso di personaggi che hanno avuto accesso ai tamponi senza avere i sintomi della malattia, quando è impossibile farli per la gente comune affetta da polmoniti conclamate.
Ora, con ancora migliaia di nuovi contagiati al giorno, i padroni e i loro servi della politica e del sindacato, spingono verso la normalizzazione. I profitti devono ripartire, per loro vale più una Panda che la vita di un operaio.
Vogliono a tutti i costi che il baraccone riparta. Ma è facile prevedere che quando gli operai, costretti a ripartire, constateranno che non bastano qualche mascherina in più, un po’ di disinfettante e una montagna di chiacchiere, vorranno per loro le stesse tutele che sono garantite ai padroni e ai loro servi. Chiederanno perciò uno Spallanzani in ogni distretto industriale, tamponi di controllo di massa e ripetuti, tutela dei familiari con garanzia di cure adeguate anche per loro.
F.R.
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