Con
l’emergenza legata alla pandemia stanno passando nel silenzio
generale una serie di misure atte ad aumentare gli strumenti legali
di dominio del datore di lavoro. Spesso queste misure sono presentate
come norme volte a tutelare i lavoratori, ma una lettura attenta del
loro contenuto, fatta dal punto di vista degli operai, ci rivela che
in realtà esse sono soprattutto rivolte a tutelare gli interessi
aziendali. Ci riferiamo in particolare alla possibilità di escludere
dalla produzione i cosiddetti lavoratori fragili, quei soggetti cioè
che sono in realtà idonei a svolgere le loro attuali mansioni, ma
che, presentando patologie respiratorie o metaboliche od oncologiche
o di immunodepressione, sono più a rischio di gravi complicanze a
seguito di un eventuale contagio da covid 19. La norma in questione è
presente nell’art. 26 del Decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020,
che afferma che i lavoratori disabili con connotazione di gravità o
disabili per immunodepressione (cioè in entrambi i casi, quelli
riconosciuti disabili ai sensi della legge 104/92, art, 3,
rispettivamente comma 3 ed 1) possono assentarsi dal lavoro fino al
30 aprile e la loro assenza sarà considerata assenza per malattia
equiparata al ricovero ospedaliero, senza perciò incappare nei
limiti del comporto, cioè del limite di assenze per malattia,
superato il quale scatta il licenziamento. In pratica, il lavoratore
“fragile” si assenterà con certificazione del proprio medico di
base che indicherà il codice speciale V07. L’articolo 74 del
Decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020, ha prorogato tale termine
fino al 31 luglio 2020. Sembra una misura giusta di per sé, perché
tesa a tutelare la fascia più debole dei lavoratori che sono stati
costretti ad addensarsi nelle aziende, malgrado il contagio continui
a diffondersi anche se, per fortuna, attualmente con un ritmo minore.
Certo, i padroni, stando a casa i dipendenti più a rischio di
complicanze da coronavirus, si tutelano anche loro da eventuali cause
per danno biologico, soprattutto se la fabbrica diventasse un
focolaio epidemico. Questo però sembra un aspetto secondario della
norma. Ma le cose non sono esattamente come appaiono a prima
vista.
La prima cosa che balza agli occhi è che l’operazione
è a totale costo zero per le imprese. Infatti il comma 5 dello
stesso articolo 26 recita che “gli oneri a carico del datore di
lavoro …. sono posti a carico dello Stato”.
Ma le sorprese
non si limitano a questo.
All’interno delle disposizioni
previste per l’apertura delle attività produttive (il termine
apertura è in realtà un mero eufemismo, visto che la maggioranza
delle imprese industriali non hanno mai chiuso i battenti anche nei
periodi peggiori dell’epidemia) sono indicate una serie di misure
che dilatano di fatto il potere decisionale degli imprenditori, al
punto di dar loro la possibilità di selezionare sulla base dello
stato di salute gli operai da ammettere in fabbrica. E’ evidente
che in una situazione di prevedibile contrazione delle produzioni a
seguito della crisi innescata dalla pandemia, con connessa
contrazione dell’occupazione, ciò aumenterà la possibilità dei
padroni di tenersi in fabbrica i più produttivi, licenziando quelli
meno produttivi e questa operazione assumerà i caratteri di una vera
e propria “selezione” naturale. I sani dentro, i meno sani e più
anziani fuori. La figura centrale in questa operazione è quella del
medico competente, che è il medico nominato dall’azienda per
collaborare col datore di lavoro nella valutazione dei rischi
lavorativi e che effettua la sorveglianza sanitaria dei lavoratori.
Le competenze di questo medico aziendale vengono, con la scusa
dell’emergenza sanitaria, potenziate. Sia il protocollo fra governo
e parti sociali per le misure anti covid 19 sui luoghi di lavoro,
recepito come allegato 12 del DPCM del 17 maggio 2020, sia le linee
guida dell’Inail, sia le indicazioni del Ministero della Salute del
29 aprile, affidano al medico competente il compito di individuare i
lavoratori con particolari fragilità in relazione al possibile
contagio e danno facoltà a questi di allontanarli dal lavoro,
dichiarando la loro inidoneità temporanea. Il medico competente non
si limiterà più a valutare le condizioni fisiche del lavoratore in
relazione alle specifiche mansioni da svolgere, ma le condizioni
fisiche generali di questi, potendo decretare l’allontanamento. Le
norme, fra l’altro, non fanno riferimento solo alle possibili
patologie metaboliche, respiratorie, oncologiche e di
immunodepressione di cui questi può soffrire, ma insistono sull’età
del soggetto, considerando come particolarmente a rischio tutti i
lavoratori con età superiore ai 55 anni. In questo modo quello che
sembrava una possibilità di scelta di autotutela del lavoratore,
diventa un potere di selezione dell’azienda.
A totale conferma
di questa nostra valutazione è subito intervenuta la FCA, che, come
al solito, si mostra come il battistrada di tutte le iniziative del
fronte padronale. In questi giorni a pioggia, il medico competente
della FCA di Melfi ha inviato lettere ai dipendenti definiti
“ipersuscettibili” al rischio covid 19 sulla base di una non
meglio documentazione sanitaria in suo possesso. Queste lettere sono
arrivate non solo agli operai affetti dalle patologie elencate nei
provvedimenti legislativi, ma anche a molti lavoratori RCL, cioè con
ridotte capacità lavorative, molti dei quali soffrono di tendiniti,
ernie, ecc., cioè di patologie da sforzo prolungato, si tratta cioè
di operai che sono stati consumati dal lavoro di fabbrica. In questo
caso, queste patologie non hanno alcun nesso con il rischio covid,
eppure sono invitati a mettersi a malattia per il rischio covid
oppure a presentare adeguata documentazione medica. L’FCA sta così
prendendo al balzo l’occasione per allontanare, per ora in modo
temporaneo, gli operai meno produttivi. L’andamento del mercato
dell’auto però fa capire dove questi provvedimenti vanno a
parare.
Gli
operai FCA del Partito Operaio
FCA- L’USO DEL COVID 19 PER LA SELEZIONE DEGLI OPERAI

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