Seconda parte dell’intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate.
Undicesima puntata
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Come si crea il profitto quando una merce è venduta al suo valore
Supponiamo che un’ora di lavoro medio sia incorporata in un valore di sei denari, cioè che dodici ore di lavoro medio siano incorporate in un valore di sei scellini. Supponiamo inoltre che il valore del lavoro sia di tre scellini, cioè il prodotto di sei ore di lavoro. Se nella materia prima, nelle macchine, ecc. impiegate per una determinata merce sono incorporate ventiquattro ore di lavoro medio, il loro valore ammonterà a dodici scellini. Se inoltre l’operaio occupato dal capitalista aggiunge a questi mezzi di produzione dodici ore di lavoro, queste dodici ore saranno incorporate in un valore supplementare di sei scellini. Il valore complessivo del prodotto sarà quindi di trentasei ore di lavoro materializzato, pari a diciotto scellini. Ma poiché il valore del lavoro, cioè il salario pagato all’operaio, ammonta soltanto a tre scellini, il capitalista non ha pagato nessun controvalore per le sei ore di pluslavoro prestate dall’operaio e incorporate nel valore della merce. Il capitalista, vendendo questa merce al suo valore, a diciotto scellini, realizza dunque un valore di tre scellini per il quale non ha pagato nessun equivalente. Questi tre scellini costituiranno il plusvalore o profitto che egli intasca. Il capitalista otterrà dunque il profitto di tre scellini non vendendo la merce a un prezzo superiore al suo valore, ma vendendola al suo valore reale.
Il valore di una merce è determinato dalla quantità totale di lavoro che essa contiene. Ma una parte di questa quantità di lavoro rappresenta un valore per cui è stato pagato un equivalente in forma di salari; mentre un’altra parte è materializzata in un valore per cui non è stato pagato nessun equivalente. Una parte del lavoro contenuto nella merce è lavoro pagato; un’altra parte è lavoro non pagato. Perciò quando il capitalista vende la merce al suo valore, cioè secondo la somma totale di lavoro in essa cristallizzato e impiegato per la sua produzione, egli deve necessariamente venderla con un profitto. Egli non vende soltanto ciò che gli è costato un equivalente, ma vende anche ciò che non gli è costato niente, quantunque sia costato il lavoro del suo operaio. I costi della merce per il capitalista e i suoi costi reali sono cose diverse. Ripeto, dunque, che si fanno profitti normali e medi quando le merci vengono vendute non sopra il loro vero valore, ma al loro vero valore.(continua)
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