Seconda parte dell’intervento letto da Marx alla riunione del 27 giugno 1865 del Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai. Suddivisa da noi in puntate.
Quattordicesima puntata
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Il rapporto generale tra profitti, salari e prezzi
Se dal valore di una merce togliamo il valore delle materie prime e degli altri mezzi di produzione impiegati in essa, cioè se togliamo il valore che rappresenta il lavoro passato in essa contenuto, il valore che rimane si riduce alla quantità di lavoro aggiunto dall’operaio che ha lavorato a essa per ultimo. Se questo operaio lavora giornalmente dodici ore, se dodici ore di lavoro medio si cristallizzano in una quantità di oro eguale a sei scellini, questo valore addizionale di sei scellini è l’unico valore che il suo lavoro avrà prodotto. Questo valore determinato dal tempo di lavoro è l’unico fondo dal quale sia l’operaio che il capitalista possono trarre la loro parte o quota rispettiva, l’unico valore che deve essere ripartito in salari e profitti. È evidente che questo valore stesso non viene modificato dal diverso rapporto secondo il quale esso può venir ripartito fra le due parti. Inoltre, nulla sarà mutato se invece di un operaio considereremo l’intera popolazione operaia, e invece di una giornata di lavoro considereremo, poniamo, dodici milioni di giornate di lavoro.
Poiché il capitalista e l’operaio hanno da suddividersi solo questo valore limitato, cioè il valore misurato dal lavoro totale dell’operaio, quanto più riceve l’uno, tanto meno riceverà l’altro, e viceversa. Siccome non esiste che una quantità, una parte aumenterà nella stessa proporzione in cui l’altra diminuisce. Se i salari cambiano, il profitto cambierà in direzione opposta. Se i salari diminuiscono, aumenteranno i profitti; se i salari aumentano, i profitti diminuiranno. Se l’operaio, come abbiamo supposto precedentemente, riceve tre scellini, la metà del valore che egli ha creato, o se la intera giornata di lavoro consiste per metà in lavoro pagato e per l’altra metà in lavoro non pagato, il saggio del profitto sarà del 100 per cento, perché il capitalista riceverà tre scellini. Se l’operaio riceve solo due scellini, cioè lavora per sé solo un terzo della giornata, il capitalista riceverà quattro scellini e il saggio del profitto sarà del 200 per cento. Se l’operaio riceve quattro scellini, il capitalista ne riceverà solo due e il saggio del profitto cadrà allora al 50 per cento; ma tutte queste variazioni non esercitano nessuna influenza sul valore della merce. Un aumento generale dei salari provocherebbe dunque una caduta del saggio generale del profitto, ma non eserciterebbe nessuna influenza sul valore. Sebbene i valori delle merci, che debbono regolare in ultima analisi il loro prezzo di mercato, vengono determinati unicamente dalla quantità complessiva del lavoro in esse cristallizzato, e non dalla ripartizione di questa quantità in lavoro pagato e in lavoro non pagato, non ne deriva affatto che i valori di singole merci o di un certo numero di merci che vengono prodotte, per esempio, in dodici ore, restino costanti. Il numero o la massa di merci prodotte in un determinato tempo di lavoro e con una determinata quantità di lavoro, dipende dalla forza produttiva del lavoro impiegato per la loro fabbricazione, e non dalla sua estensione o dalla sua durata. Con un determinato grado di forze produttive del lavoro di filatura, per esempio, con una giornata di lavoro di dodici ore si producono dodici libbre di filo; con un grado inferiore di forze produttive soltanto due libbre. Quindi, se nel primo caso dodici ore di lavoro medio sono incorporate in un valore di sei scellini, le dodici libbre di filo costeranno sei scellini; nell’altro caso, le due libbre di filo costeranno pure sei scellini. Una libbra di filo costerà dunque sei denari nel primo caso, e tre scellini nel secondo. La differenza del prezzo sarebbe una conseguenza della differenza delle forze produttive del lavoro impiegato. Nel caso della maggiore forza produttiva, in una libbra di filo sarebbe incorporata un’ora di lavoro, mentre nel caso della minore forza produttiva in una libbra di filo sarebbero incorporate sei ore di lavoro. Il prezzo di una libbra di filo sarebbe, nel primo caso, soltanto di sei denari, quantunque i salari siano relativamente alti e basso il saggio del profitto. Nell’altro caso sarebbe di tre scellini, quantunque i salari siano bassi e alto il saggio del profitto. E avverrebbe così perché il prezzo della libbra di filo è determinato dalla quantità complessiva del lavoro che essa contiene e non dal rapporto fra lavoro pagato e lavoro non pagato in cui questa quantità complessiva si scompone. Il fatto menzionato sopra, che il lavoro ben pagato può produrre merci a buon mercato, e il lavoro mal pagato merci care, perde perciò la sua apparenza paradossale. Esso è soltanto l’espressione della legge generale secondo cui il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro in essa incorporata, ma che questa quantità di lavoro dipende esclusivamente dalle forze produttive del lavoro impiegato e perciò varia con ogni variazione della produttività del lavoro. (continua)
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