I nodi vengono al pettine, facciamo il riassunto delle più importanti crisi industriali che andranno a soluzione (e chiusura) nei prossimi mesi.
Caro Operai Contro, i dati Istat di settembre (riferiti a maggio giugno 2020), dicono che “Quasi il 40% delle imprese italiane, (che occupano circa 3,6 milioni di addetti) rischia la chiusura a causa delle crisi connessa all’emergenza da Covid 19”.
Dando la colpa a Covid 19, si nasconde il vero motivo della crisi, che sta nella sovrapproduzione generata dai limiti del modo di produzione capitalistico. Così si assolvono il capitalismo e tutti i partiti delle classi sociali sopra gli operai, che lo sostengono a spada tratta e fanno appelli perché tutti, anche gli operai, si diano da fare per tenere in piedi il baraccone dei loro sfruttatori.
Ancora l’Istat: “Durante il lockdown ha operato solo il 32,5% delle imprese, mentre il 43,8% ha dovuto sospendere l’attività fino al 4 maggio (compreso il 49,1% delle imprese più produttive)”.
“Il 38,8% delle imprese italiane (pari al 28,8% dell’occupazione, circa 3,6 milioni di addetti, è alle prese con problemi economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza. Si tratta soprattutto di micro imprese (40,6% per 1,4 milioni di addetti) e piccole imprese (33,5% per 1,1 milioni di occupati). Anche nelle medie e grandi le percentuali sono comunque a doppia cifra: rispettivamente 22,4% e 18,8%”.
Oggi a distanza di 3 mesi come saranno cambiati questi dati dell’Istat?
Sicuramente importanti crisi industriali e di grandi aziende, comprese quelle che si trascinano da prima che scoppiasse Covid 19, non trovano via d’uscita. I licenziamenti da 400 mila durante il lockdown, ad agosto risultano raddoppiati a 800 mila. Le ore di cassa integrazione sono andate alle stelle.
Tra poche settimane, con la fine delle misure contenute nel decreto governativo di agosto, scade il temporaneo blocco dei licenziamenti per le aziende che abbiano usufruito delle 18 settimane di Cassa o dell’esonero contributivo.
Dall’inizio della pandemia il lavoro di milioni di operai e lavoratori, è stato interrotto da periodi di ferie forzate, rinnovi di cassa integrazione, licenziamenti incentivati, ricollocazioni fasulle o precarie. Ora per molte fabbriche e aziende si fa più minaccioso il rischio di chiusura e licenziamenti di massa.
Senza le misure governative, che momentaneamente hanno in parte frenato questa tendenza, molte grandi aziende quali Arcelor Mittal (ex Ilva), Whirpool, Piaggio Aerospace, Embraco, Alitalia ed altre, fra i 160 tavoli di crisi aperti al ministero, potrebbero andare ad ingrossare il “cimitero degli elefanti industriali”, lasciando per strada migliaia di operai, come le migliaia di altre aziende che li hanno preceduti negli ultimi anni. Ne ricordiamo alcune: Alstom Power, K. Flex, Mercatone Uno, Irisbus, OM Carrelli, Jabil C. de Pecchi, Euroallumina, AST Terni, Ansaldo, Zuccherificio Molise, Auchan, Fiat Termini Imerese, ecc. ecc.. Altre aziende hanno mantenuto il nome, ma con dipendenti fortemente ridimensionati, tra queste: Franco Tosi, Bosch Modugno, Natuzzi, ecc. Da aggiungere le piccole e medie aziende, che spesso chiudono senza tanto clamore.
Eppure in molte di queste fabbriche, gli operai hanno lottato duramente per non essere licenziati, spesso imponendosi alla linea attendista del sindacato. Ma come spesso accade dopo le prime mobilitazioni, gli ammortizzatori sociali non vengono usati dal sindacato per resistere e alzare il tiro della lotta, bensì vengono usati per dividere e disperdere gli operai, dicendo loro di starsene a casa in Cig o in solidarietà. Così si disgrega la potenzialità della lotta per respingere i licenziamenti. Per il sindacato la priorità diventa ottenere altra cassa integrazione. In questo modo si logora e si disperde la carica di lotta operaia, e dove questa resiste comunque, nonostante dirigenti sindacali compromessi o pantofolai, c’è poi la tattica dilazionatoria che trascina per mesi, a volte anni, le vertenze fino alla loro dissoluzione, con gli operai sconfitti.
Se tutto questo ha insegnato qualcosa, e se nei prossimi mesi i padroni procederanno con licenziamenti a raffica e chiusura delle fabbriche, bisognerà che gli operai da subito si preparino adeguatamente a questo scontro. Lo possono fare coalizzandosi fra di loro e agendo come una comunità. Se i capi sindacali non vorranno accettare il nuovo livello di scontro che impongono i padroni toccherà agli operai farlo in prima persona. Lo abbiamo sostenuto più volte, la lotta per non far chiudere le fabbriche, per non farsi licenziare, può risolversi nella solita piagnucolosa richiesta al padrone “di darci il lavoro” di comprare per quattro soldi ancora le nostre braccia, ed addirittura riconoscere, da parte sindacale, che se la produzione non è remunerativa per il padrone è giusto dismetterla. Con questa concezione i licenziamenti di massa dell’autunno e la chiusura delle fabbriche passeranno con l’ausilio degli ammortizzatori sociali, con la miseria operaia finanziata dallo Stato. C’è anche un’altra possibilità, che gli operai si chiedano che sistema è mai questo che distrugge mezzi di produzione e rende inattiva la forza lavoro solo perché non rendono un adeguato livello di profitto al padrone. Certamente questa critica della società, che parte dalla lotta ai licenziamenti, investe la struttura economica e potrebbe metterne in discussione i fondamenti, se gli operai combattessero convinti che chi li licenzia e chiude le fabbriche non è né il covid, né la crisi di mercato ma la corsa ai profitti dei loro padroni lo scenario cambierebbe, alla richiesta di un lavoro elemosinato si opporrebbe la richiesta di sostituire alla gestione della produzione sociale gli operai associati al posto dei padroni che hanno fallito miseramente. La lotta diventerebbe molto più seria e come effetto secondario, immediato costringerebbe i padroni che vogliono chiudere le fabbriche e licenziare almeno a mettere mano al portafoglio per integrare il salario al 100%.
Saluti Oxervator
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