All’ex Ilva Fiom, Fim, Uilm e Usb strepitano e organizzano qualche scioperetto farsa per calmare il malcontento degli operai, ma non vogliono e non hanno più le credenziali per spingerli ad una lotta seria
ArcelorMittal è disposta a rimanere a Taranto solo alle proprie condizioni, altrimenti è pronta ad andarsene appena lo riterrà opportuno e conveniente. È in funzione del primo percorso che organizza, blocca, smette o riprende la produzione nelle varie aree dello stabilimento tarantino e gestisce i circa 8.000 operai con aumento o diminuzione delle presenze in fabbrica, ricorso a volontà alla cassa integrazione, rotazione del personale, chiamate improvvise. Per la multinazionale franco-indiana il secondo percorso è un’ottima arma di ricatto per conseguire i risultati fissati dal primo, almeno fin quando le converrà.
AM è arrivata a Taranto due anni fa. Governo nazionale, governo regionale, partiti e sindacati, lieti di essersi tolti di mano la “patata bollente” dell’ex Ilva, le suonavano la fanfara, ma AM è arrivata con un proposito ben preciso: utilizzare la fabbrica e piegare gli operai alle proprie esigenze di massimo profitto, facendosi beffe fin da subito del buonismo che chi l’aveva chiamata le aveva cucito addosso. L’accordo del 6 settembre 2018, che svuotava la fabbrica di circa 6.000 operai, riducendone il numero da 14.000 a 8.200, con la firma di Fiom, Fim, Uilm e Usb, ne era chiara testimonianza. Avuto il consenso per avere mano libera sugli operai, ha cominciato ad applicarla subito. L’ha accentuata non appena si è profilata una crisi dell’acciaio sul mercato mondiale. L’ha resa definitiva quando l’emergenza Covid-19 ha aggravato la crisi, imponendo la cassa integrazione ora a 5.000 operai ora a un numero maggiore a seconda delle sue necessità.
Fin quando AM continuerà a spadroneggiare a Taranto? Fin quando le converrà o fin quando non le sarà impedito dagli operai stessi.
Per riverenza istituzionale verso i padroni franco-indiani e per paura che AM vada via e rimetta nelle loro mani la “patata bollente” del destino della fabbrica e delle sorti di migliaia di operai, il governo centrale e quelli locali, i partiti e i sindacati, ciascuno per la propria parte, non hanno fatto altro che blandirla, assecondarne le richieste, alzando ogni tanto la voce e dando un colpo al cerchio operaio e uno alla botte padronale per mantenere il controllo sulle masse operaie e garantirsi un passabile equilibrio sociale.
Il governo Conte ha rinunciato allo scudo penale, ha accettato le raffiche di cassa integrazione sparate, con diverse formule, a più riprese sulla pelle degli operai, ha chiuso gli occhi di fronte al sostanziale disinteresse di AM per la sicurezza in fabbrica e quella ambientale, ha promesso di entrare nella proprietà dell’ex Ilva assicurando consistenti afflussi finanziari.
Fiom, Fim e Uilm, dopo essersi calati innumerevoli volte le braghe, non sanno più che pesci prendere di fronte all’insaziabile decisionismo di AM. Pressati dal malcontento operaio ripetono che non riconoscono né l’accordo firmato il 4 marzo fra governo Conte e ArcelorMittal né il piano industriale presentato a giugno dall’ad Morselli. Affermano di riconoscere solo l’accordo firmato il 6 settembre 2018 “perché garantiva la piena occupazione” e invocano un piano industriale serio. Si baloccano con le parole e qualche scioperetto farsa per tenere buoni gli operai. Dimostrano quello che sono, venditori di fumo, plaudendo che l’azienda, “preso atto delle rivendicazioni sindacali, abbia aumentato a fine settembre il numero dei lavoratori in fabbrica da 3.680 a 3.910”! L’Usb alza ancora più forte la voce, abbandona il tavolo della trattativa su come meglio scuoiare gli operai, blocca per qualche ora l’uscita merci e come un pappagallo ripete che “AM deve andare via” e che “il governo deve nazionalizzare l’ex Ilva e garantire la piena occupazione”! Ma sia la triplice, sia l’Usb, si muovono in concorrenza fra loro, ognuno attento al proprio referente politico al governo, hanno stressato gli operai con i loro scioperi farsa, le dichiarazioni inconcludenti, e forse pur potendolo ancora fare, si guardano bene dal chiamare gli operai a una lotta determinata per fermare la cassa integrazione o imporre il salario completo e per ottenere il rispetto di una reale sicurezza per gli operai e l’ambiente. Non si azzardano neanche a cominciare una lotta del genere, perché poi sfuggirebbe loro di mano e gli operai andrebbero avanti per proprio conto. Ma come sempre il problema sono gli operai, la loro iniziativa diretta, gli scioperi senza preavviso, senza bandierine parrocchiali capaci di bloccare lo stabilimento, solo a quel punto la discussione sul futuro degli operai siderurgici di Taranto diventerebbe seria. Si può fare.
L.R.
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