Ed è arrivato insieme ad una lettera che non lascia margini interpretativi, con cui l’azienda parla per la prima volta direttamente agli operai e dice loro che “con effetto alle ore 00:01 del 01 Novembre i dipendenti saranno esentati dal rendere la propria prestazione lavorativa presso il sito…l’accesso ai locali aziendali sarà consentito soltanto previa richiesta scritta autorizzata dalla direzione, per i soli fini del legittimo esercizio dei diritti sindacali derivanti dal Ccnl o altre comprovate esigenze personali, e nel rispetto di tutti i protocolli di sicurezza vigenti. Qualsiasi accesso non autorizzato sarà perseguito a termini di legge”. E’ finita questa estenuante attesa di una svolta che doveva arrivare dai piani alti istituzionali. Gli operai vengono buttati fuori dalla loro fabbrica, pagata cento e più volte con il sudore e i sacrifici fatti per arricchire un piccolo gruppo di parassiti.
I sindacalisti che li hanno tenuti a stretta sorveglianza per un anno e mezzo criticano il governo perché avrebbe dovuto fare di più. L’intervento in extremis di Conte non è servito a far cambiare idea ai padroni americani. Quelli che ci speravano erano soprattutto gli operai.
Sulla Whirlpool tutti hanno detto la loro. Ai cancelli di Via Argine si sono avvicendati personaggi televisivi e dello spettacolo, militanti sindacali e politici di varia estrazione, rappresentanti istituzionali di ogni ordine e grado. Ciascuno con la sua ricetta da dispensare agli operai: finanziamenti pubblici, riconversione del sito, esplorazione di mercato per nuovi acquirenti, nazionalizzazione della fabbrica. Mentre si costruivano teorie di salvataggio, l’azienda tirava dritto per la sua strada, comunicando a più riprese, e a ben due governi, che le sue intenzioni non sarebbero cambiate. Il 31 ottobre lo stabilimento sarebbe stato chiuso. E con uno stabilimento di fatto chiuso gli operai hanno continuato a produrre per mesi, spremuti fino all’ultima lavatrice. Il padrone ha potuto accumulare scorte e profitti ritenendo gli operai incapaci di qualsiasi reazione che mettesse seriamente in discussione la sua linea intransigente.
Non li ha mai visti assumere realmente il comando delle loro iniziative, fatte sempre con la premura di non varcare i limiti delle strategie di collaborazione sindacale, della dialettica democratica e istituzionale, li ha visti anzi ben intruppati, disponibili a smobilitare o a reagire, secondo piani e percorsi ben confezionati, quando i sindacalisti lo chiedevano, aggrappati alla parola del politico di turno, al ministro che la sparava più grossa, al sindacalista che si mostrava più affidabile in assemblea, alla legge dello Stato e agli accordi che avrebbero dovuto piegare l’azienda, mantenendo in piedi un presidio all’esterno della fabbrica, per marcare una presenza costante, far parlare media e giornali, senza mai andare oltre.
Potrebbero decidere adesso però di fare a modo loro. A modo di chi è stato sfruttato per decenni dal padrone, utilizzato dai sindacati, preso in giro dai politici al servizio di chi comanda perché ha potere economico. Potrebbero contarsi, organizzarsi, cambiare approccio, uscire dai ranghi, mettere sotto pressione i sindacalisti che con il solito copione del “ce la metteremo tutta” e “Napoli non molla” ne hanno chiuse di fabbriche in tutto il paese, anche di più grosse, far capire ai politici che questa volta sarà diversa. Fare una lotta come collettività operaia che non ci sta ad andarsene con il sipario che si chiude con le mezze chiacchiere degli attori della politica borghese. Quelli che ipocritamente oggi recriminano (i sindacalisti), che si accorgono troppo tardi di non avere gli strumenti (il ministro del lavoro), che inventano ancora tavoli con un’azienda andata via (il capo del governo).
Forse è arrivato il momento di mettere tutti con le spalle al muro, sperimentare ciò che nessuno dei loro sorveglianti mette nel conto: spiazzare tutti i ciarlatani, i venditori di fumo, i cani da guardia, occupando la fabbrica, la loro fabbrica, la fabbrica da cui stanno per essere cacciati via. Prendere nelle proprie mani le sorti di questa battaglia: mandare via i dirigenti che hanno fallito, sostituirli con veri delegati operai, prendere in consegna tutti i macchinari e le materie prime fino a che non si trovi qualcuno disposto a rimettere in moto la fabbrica. Tutti gli operai sarebbero coinvolti per tenere attivo lo stabilimento, i turni di presidio non peserebbero dopo una vita di lavoro per il padrone. Chi pagherebbe lo stipendio? Lo Stato con la Cigs restituirebbe una minima parte dei soldi che si è preso dalla busta. L’integrazione al salario spetterebbe al padrone, che ha realizzato sul lavoro operaio una montagna di profitti. E’ il momento di scrivere un’altra storia. Una storia che diventerebbe d’esempio per tutti gli operai che lottano contro la chiusura delle fabbriche. Il messaggio sarebbe chiaro per tutti: se i padroni per fame di profitti non fanno altro che chiudere le fabbriche e licenziare, gli operai lo impediscono. Invece di andare a casa con una miseria, si occupa la fabbrica e si vede come va a finire.
A.B.
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