Le parole non costano niente, ancora promesse, impegni, minacce senza seguito. Il padrone ha fatto ciò che aveva deciso: chiudere la fabbrica. La risposta è nelle mani degli operai
Napoli – Via Argine ore 10, sta per cominciare l’assemblea dei sindacati, è l’ultimo giorno prima della formale cessazione dell’attività decisa dall’azienda. Gli operai arrivano alla spicciolata, la polizia presidia gli ingressi della fabbrica. Operai e sindacalisti si concentrano all’esterno per poi raggiungere il capannone allocato nell’area parcheggio dello stabilimento. L’assemblea è molto partecipata. I sindacati tengono banco. Ci sono esponenti delle segreterie regionali e nazionali di Fiom, Fim e Uilm. Sono loro a condurre la prima metà dell’assemblea che si protrae per 3 ore. Il clima non è più quello festoso del 31 Ottobre di un anno prima, quando annunciavano dal palco di Piazza del Gesù la vittoria agli operai. Dodici mesi dopo sono costretti a fare i conti con una fabbrica chiusa e la rabbia di 400 operai e delle loro famiglie.
Piovono accuse contro il governo, ritenuto il vero responsabile del fallimento di questa vertenza, incapace di trovare soluzioni, che si fa ricattare dalla multinazionale americana. Dicono agli operai che ci sono ruoli differenti e che qualcuno in questa vertenza non ha saputo svolgere bene il proprio compito, loro fanno sindacato, “quindi la lotta”, il governo doveva fare il governo, trovare perciò delle soluzioni e non lo ha fatto. Non è ben chiaro di quale lotta stiano parlando dal momento che in 18 mesi ogni iniziativa è stata tesa a cercare un dialogo e degli accordi con quelli che oggi mettono sul banco degli imputati, mentre si tenevano buoni gli operai, convinti ad aver fiducia in una qualche soluzione che prima o poi sarebbe arrivata. A quei tavoli, oggi ritenuti improduttivi, c’erano anche loro, se lo ricordano bene gli operai che a Roma davanti al Ministero dello Sviluppo Economico nello scorso gennaio li chiamarono venduti, tra urla e spintoni, con i sindacalisti che trovarono riparo dietro un cordone di polizia.
La Fiom annuncia che ci sarà “un nuovo Vietnam, non si lascerà la fabbrica, si faranno azioni eclatanti”, ma che tutto si svolgerà nel rispetto dei principi di legalità. Sarà permesso manifestare ma senza esagerazioni. La rabbia degli operai per il momento è ancora gestibile. C’è salario per altri due mesi. Questo facilita l’attività delle organizzazioni sindacali che annunciano battaglia il 5 novembre in occasione dello sciopero dei metalmeccanici. Si susseguono nella seconda parte dell’assemblea interventi delle forze politiche accorse in solidarietà e di alcune figure istituzionali come il Sindaco di Napoli. La passerella è lunga, le lingue allenate a battere sul tamburo delineano scenari e proposte agli operai. Non manca niente: dalla lavatrice green alla nazionalizzazione da parte dello Stato, ma sotto il controllo diretto degli operai. La fantasia corre e corrono via anche gli operai. C’è tempo ancora per una “tammurriata solidale” prima di tornare a casa, ai cancelli risuonano invece le voci di alcuni operai “quelli con le pance piene e il culo coperto hanno finito di parlare pure oggi”….
Con la scadenza imposta da Whirlpool il tempo per il rimpallo delle responsabilità si è chiuso, se oggi si apre una nuova fase, come dicono i sindacati, vedremo quali fatti seguiranno. Il padrone intanto è l’unico a tirare dritto per la sua strada. Gli ingressi della fabbrica sono già stati blindati, chiusi con i catenacci. Facendo intendere a tutti a quale livello si pone lo scontro. Chi non è abituato a far chiacchiere lascia segni inequivocabili delle sue azioni.
A. B.
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