La borghesia italiana fra russi e turchi rivendica un posto al tavolo per la spartizione del petrolio libico, ci sono di mezzo i profitti dell’ENI
L’articolo di Repubblica del 21 febbraio 2021 già dal titolo, “Il vallo di Putin e le fortezze turche – La nuova Libia ha due soli padroni” di Gianluca Di Feo”, mal dissimula le sue vere intenzioni: nessuno dei due padroni è italiano e va messa una pezza. Quando viene pubblicato, Draghi ha da poco stilato la sua lista dei ministri, deve ancora presentarsi alle camere per ottenere la fiducia, ma Di Maio, nella spartizione di poltrone tra i partiti, è appena stato riconfermato ministro degli esteri. La Repubblica si fa allora portavoce della borghesia italiana che conta, quella che fa profitti in giro per l’Africa e nel Mediterraneo, senza farsi troppi scrupoli, corrompendo e pagando politici e milizie locali. È certa che Draghi sarà sensibile agli interessi delle multinazionali italiane ma la riconferma di Di Maio forse la preoccupa, ne ha costatato l’inconsistenza nel rappresentarla nel mondo. Il quotidiano in mano alla famiglia Agnelli-Elkan lancia pertanto l’allarme al nuovo governo: “bisogna decidere se l’Italia intende ancora giocare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo.” E il capitolo più caldo è da anni certamente la Libia dove i profitti dell’ENI in particolare, ma non solo, sono messi in discussione. Le rassicurazioni di Draghi non si faranno attendere, prontamente nel discorso per ottenere la fiducia alle camere dichiarerà: “Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa”.
IL MESSAGGERO DI CALTAGIRONE E LA PAURA DI PERDERE TRIPOLI
Ancor più esplicito del giornalista di Repubblica è Alessandro Orsini che cura una rubrica domenicale su Il Messaggero di Roma, di proprietà dei Caltagirone – noti imprenditori italiani nel settore edile e grandi lavori. “Che l’Italia sia riuscita a mantenere Tripoli è una specie di miracolo” … “La politica internazionale non è la politica interna, in cui si procede a colpi di “mi è simpatico/antipatico”. La politica internazionale è l’arena degli Stati. Qui si procede a colpi di “, muoio/sopravvivo” (L’Italia, la Libia e lo scandalo delle armi ad Haftar). Questo secondo campione dell’informazione asservita al grande capitale italiano quando parla esplicitamente del pericolo corso (“mantenere Tripoli”), ovvero che l’Italia avrebbe potuto perdere Tripoli, non sta in un altro secolo sotto il regime di Mussolini, ma parla, deridendo i 5 stelle, per conto dell’Eni al nuovo governo Draghi del 2021. Ciò che lo induce a tanta chiarezza è quanto pubblicato il 19 febbraio 2021 dal “New York Times”: un dossier Onu sulla violazione dell’embargo della vendita di armi al generale Haftar da parte di Erik Prince, fondatore della compagnia Blackwater (una compagnia militare privata americana).
TRIPOLI SEMBRAVA PERSA, MA LE ARMI PER CONQUISTARLA NON ARRIVARONO
I fatti denunciati dall’Onu risalgono alla primavera-estate 2019, quando sembrava che da un momento all’altro Tripoli dovesse cadere mano militare nelle mani di Haftar che ad aprile l’aveva presa d’assedio. Haftar, generale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) di Tobruk (Cirenaica, Libia Est), già sostenuto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia e Francia, con anche gli armamenti della statunitense Blackwater avrebbe potuto prendersi Tripoli. Prenderla all’Italia, il “muoio” secondo il giornalista che scrive per il giornali dei Caltagirone.
Qualcosa andò però storto nei traffici tra Haftar e Blackwater, la Giordania attraverso la quale dovevano transitare gli armamenti tra cui 3 temibili elicotteri da combattimento, evitò la “sciagura industriale” interessi dell’ENI e la “sciagura nazionale” alla borghesia italiana.
I PADRONI DI TRIPOLI CHIESERO ARMI ALL’ITALIA PER LA CONTROFFENSIVA MA PER L’EMBARGO VENNERO NEGATE
Per capire meglio la questione, va detto che in quello stesso periodo il governo della Tripolitania chiese sostegno in armamenti all’Italia, ma gli venne negato. Lo stesso capo del Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli (Tripolitania, Libia Ovest), Fayez al-Sarraj, prima ancora di andare a Roma, volò direttamente a Milano (1 luglio 2019) per spianare la strada alle sue richieste con l’allora vicepresidente Matteo Salvini, evidentemente ritenuto dai libici uomo forte e deciso del governo Conte I. Ma il governo italiano non oso tanto, va bene protestare nelle sedi internazionali contro il sostegno della Francia (Total) ad Haftar, ma da qui a fornire direttamente le armi a Tripoli mettendosi contro Ue, Usa e Onu evidentemente ne passava. Eppoi l’Italia non ha una sua Blackwater per questi giochi sporchi, solo i servizi segreti, che sono più esposti politicamente.
I TURCHI AGGIRANO L’EMBARGO
Un membro della delegazione libica descrisse allora la vicenda in questo modo: «il premier [Al-Sarraj, ndr] avrebbe chiesto all’Italia forniture di armi per consentire la controffensiva in difesa di Tripoli. Come ha fatto la Turchia, che non ha subìto nessuna punizione dall’Onu per la violazione dell’embargo». Ecco, appunto, la Turchia. Quella Turchia a cui da allora la borghesia di Tripoli (Libia Ovest) si è consegnata per evitare la conquista da parte dell’altra fazione, quella di Haftar (Libia Est).
PUTIN ED ERDOGAN SI DIVIDONO LA LIBIA SUL CAMPO
Ma torniamo all’articolo di Repubblica perché lì, oltre a fare una descrizione puntuale e dettagliata della spartizione sul campo della Libia tra la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan, si prefigura da una parte il solito ambiguo ruolo della borghesia italiana che fa affari con tutti i potentati locali (leggasi tangenti alle milizie e ai politici), dall’altra una storica tutela dell’alleanza con gli Usa, che con Biden, superata l’era di Trump, torni a fare da contrasto agli imperialismi francesi e russi. In breve quest’anima della borghesia italiana dando per assodato il vallo di Putin, vorrebbe soprattutto che le altre potenze imperialiste atlantiche non mettessero in discussione i contratti in essere della propria multinazionale degli idrocarburi nell’Ovest della Libia, in cambio sarà disposta (questo è l’appello a Draghi ad assumere un ruolo da protagonista nel Mediterraneo) a fornire uomini e mezzi a una coalizione militare che fermi le smanie di conquista della Turchia in tutto il Mediterraneo.
L’ITALIA CERCA DI INSERIRSI NELLA SPARTIZIONE
MA LA TURCHIA CONTROLLA TRIPOLI
Peccato che la Turchia è ormai ben insediata a Tripoli, cioè proprio in quel Nord-Ovest dove gli interessi dell’Eni e delle altre società italiane di costruzione e impiantistiche sono più radicati, e da dove non ha nessuna intenzione di andarsene. Anzi, è pronta a passare all’incasso del sostegno militare fornito a Tripoli nel momento del bisogno, e che ha permesso di fermare Haftar alle porte di Tripoli, gettarlo oltre Misurata a Sirte e poi costringerlo ad assestarsi, costruire il vallo russo. Le sue aziende – dice Erdogan – sono ora pronte alla ricostruzione della Libia. La sua compagnia petrolifera, la Turkish Petroleum Company (Tpao), è all’opera dal giugno 2020, dopo aver ricevuto dal GNA di Tripoli le autorizzazioni, in prospezioni petrolifere nella zona economica esclusiva libica. Per la Turchia, spiega al-Arab, la Libia rappresenta un “polmone” attraverso cui la propria economia può tirare sospiri di sollievo, e, pertanto, Ankara non sembra essere disposta a favorire la calma nel Paese, “contraria ai suoi interessi”.
ALLORA PER CONVENIENZA, UNA PARTE DELLA BORGHESIA ITALIANA VORREBBE APRIRE ALLA TURCHIA
Ecco dunque un Alessandro Orsini, giornalista dei Caltagirone, arrivare a sostenere che l’Italia, dopo aver fatto combattere alla Turchia la guerra in Libia ed aver vinto le mire francesi, debba ora stringere un patto di ferro con Erdogan. E’ uno che parla chiaro e così scriveva già settembre scorso: “è stata necessaria la guerra, che la Turchia ha combattuto al posto dell’Italia. Siccome Conte non poteva sparare contro Haftar, ha lasciato che fosse Erdogan a premere il grilletto. Il risultato, favorevolissimo all’Italia, è stato che Haftar ha invocato la pace con la foga di chi sta per affogare, d’intesa con il presidente dell’Egitto, al-Sisi. Senza Erdogan, Tripoli sarebbe caduta e l’Italia avrebbe subito un’umiliazione davanti al mondo intero, oltre a essere danneggiata nei suoi interessi materiali”. Il 23 febbraio scorso, dopo l’articolo del NYT di cui abbiamo parlato sopra, e che gli confermerebbe le sue tesi che gli interessi della borghesia italiana sono minacciati proprio da quelli che sono i suoi alleati storici, ritorna alla carica: “Il governo Draghi deve avviare una politica di amicizia con la Turchia, che abita accanto all’ambasciata italiana a Tripoli”.
LA REPUBBLICA E IL MESSAGGERO SI CONFRONTANO SULLE SCELTE DELL’IMPERIALISMO ITALIANO
Non è certo la prima volta nella storia che la borghesia italiana nei suoi rapporti internazionali mostra tutte le sue ambiguità e arriva anche a dividersi al suo interno per decidere con quale altra potenza allearsi per tutelare i propri interessi. Se quindi dietro alle tesi di Repubblica si scorge il desiderio di tornare al passato, alla Libia di Gheddafi in cui il capitale italiano faceva da unico padrone straniero, tesi che prefigura la pura illusione della pacifica uscita di scena sia di Turchia che di Russia (e Francia) per volontà di un nuovo fantomatico governo libico di “rassemblement” nazionale, dietro alle tesi del Messaggero si scorge la lucida costatazione che conviene al capitale italiano venire a patti con la Turchia di Erdogan. In ambedue i casi, qualsiasi sia la scelta che il governo Draghi farà, dietro vi stanno i tentativi di non perdere del tutto il controllo dei pozzi di petrolio e gas in Tripolitania.
R.P.
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